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Bambini e bambine sono persone: insegniamo il consenso

I figli sono esseri umani indipendenti (anche se sono una nostra responsabilità), ma possiamo aiutarli a capire come relazionarsi con l’autonomia corporea. Ecco i 3 spunti personali
Credit: Artem Podrez

Per parlare di confini, consenso e autonomia corporea devo andare un po’ indietro nel tempo e precisamente a quando mi sono accorta che la gravidanza, per me, non era (o non era soltanto) uno spazio temporale fatto di grande estasi, placidità e gratitudine infinita.

È stato un viaggio complesso e faticoso, pieno di lunghi lampi di intensa vulnerabilità, paura e spesso rabbia. Ho avuto paura per la mia sicurezza, che era inestricabilmente legata alla sicurezza di chi cresceva dentro la mia pancia: una spinta involontaria di qualcuno in fila dietro di me o una macchina che non si fermava abbastanza in fretta quando dovevo attraversare con il verde mi facevano sentire incredibilmente vulnerabile, insomma, preda di quella primordiale paura che deriva da un atavico bisogno di protezione.

Ancora più snervanti erano i casi in cui il contatto fisico non era solo implicito e\o involontario ma era compiuto. In quei momenti la mia rabbia affiorava sana e forte perché non era ancora chiaro alle persone che non avevano il diritto di toccare la mia pancia o un’altra parte del mio corpo senza specifico consenso. Che si trattasse di un parente, di un uomo o di una donna anche madre, la cosa non cambiava.

La maggior parte delle volte però le mie reazioni non erano comprese, erano sottovalutate o considerate esagerate. È stato lì che ho capito che il disagio che sentiamo quando qualcuno viola lo spazio personale del corpo è intrinsecamente correlato a ciò che significa essere donna e abitare lo spazio pubblico; non possiamo far finta che non sia così, nonostante il rispetto di quegli stessi confini debba essere applicato ai corpi delle persone di qualunque genere.

In un mondo che invia costantemente messaggi alle donne riguardo a quanto contino fisicità e desiderabilità, abbiamo bisogno di rimarcare il fatto che chiunque ha il diritto di accettare o rifiutare un contatto fisico o qualunque atto che influenzi la percezione della propria sicurezza. E quando sono diventata madre, ho capito molto del perché facciamo così fatica a concepire il corpo come uno spazio privato, soprattutto quando parliamo di bambini.

La cultura del consenso si forma se capiamo che i bambini sono persone

Quando diventiamo genitori siamo generalmente pervasi e pervase da questo senso di protezione che definirei assoluto: i neonati sono inermi, dipendono in toto da noi, non possono esprimersi a parole per molto tempo. Ed è naturale che pensiamo di poter soddisfare ogni loro bisogno, da quelli legati alla sopravvivenza a quelli legati alla sfera emotiva.

Come sempre quando parliamo di cambiamento, tutto parte dall’autoconsapevolezza, ovvero dal grado di onestà che riesco ad avere con me stessa come persona in relazione alle altre e ai loro bisogni. Perché anche io, come madre (come padre, come genitore in generale) potrei non essere consapevole che i corpi dei bambini hanno confini e spazi personali. E che potrei io stessa violarli in nome di una delle cose che hanno a che fare con la nostra stessa identità: il possesso.

Il mio libro, la mia macchina, i miei vestiti, ma anche i miei amici, la mia partner, mia figlia o mio figlio. Più del concetto di “proprietà”, ciò che identifichiamo come nostro diventa estensione del sé. Lo usiamo per segnalare a noi stessi e agli altri chi siamo, chi vogliamo essere e a quali luoghi vogliamo appartenere.

Dobbiamo però fare lo sforzo di differenziare le cose dalle persone. E se sappiamo certamente che una automobile non è equiparabile a una fidanzata, riconosciamo con più difficoltà che un figlio non ci appartiene in quel senso. I figli non sono di nostro possesso: li abbiamo generati, certo, ma dobbiamo iniziare a concepirli come esseri umani indipendenti nonostante abbiano ancora bisogno di noi e, per questo, è necessario capire cosa dobbiamo fare (come adulti) per aiutarli a comprendere quali siano le opzioni che hanno a disposizione, in modo da proteggere il loro sé fisico ed emotivo.

Un modo in cui possiamo avvicinarci a questo obiettivo è esplorare alcuni degli errori comuni che commettiamo quando si tratta di educare i bambini a praticare l’autonomia corporea, che è alla base della cultura del consenso. Dobbiamo interrogarci su questo come singoli e come collettività, per non lasciare che vivano situazioni in cui i loro corpi siano trattati come proprietà, a partire proprio da noi genitori. Lascio 3 spunti in base alla mia esperienza personale.

1. I confini personali esistono e vanno rispettati

Il contatto fisico forzato o su richiesta rafforza il messaggio pericolosamente sbagliato secondo cui le esigenze degli altri arrivino prima di quelle dei bambini e delle bambine. “Il nonno vuole solo abbracciarti” , “dai un bacio alla zia, sii educata” o altri suggerimenti verbali simili richiedono, di fatto, ai bambini di ignorare i propri bisogni nei confronti di quelli di un’altra persona (sia basati sull’intuizione che sull’esperienza passata) e di ascoltare l’adulto.

Questo è un esempio di come oltrepassiamo i confini personali dei nostri figli: “Abbraccia il nonno”, diciamo, perché nella nostra mente stiamo esortando il bambino a mostrare affetto emotivo verso qualcuno a cui sappiamo che il bambino tiene. Ma, come genitore, stiamo ignorando i sentimenti del bambino e, inavvertitamente o meno, passiamo il messaggio che i sentimenti del nonno siano più importanti dei suoi e che il suo desiderio di un abbraccio prevalga sul desiderio del bambino di non darlo.

Chiedere al bambino o alla bambina perché non vuole un abbraccio può dare a tutti la possibilità di comprendere meglio i suoi sentimenti. Potrebbe esserci un motivo a cui non avevamo pensato, o anche nessun motivo specifico in quel momento, il che è legittimo. Chiediamoci come staremmo noi se fossimo costretti ad abbracciare o baciare qualcuno ogni volta che ci viene richiesto, a cosa proviamo quando qualcuno insiste nonostante il nostro rifiuto.

Questo comportamento può essere particolarmente pericoloso se si pensa all’assenza nella nostra società di una forte cultura del consenso, soprattutto nell’età evolutiva. Se si riceve il messaggio, fin da subito, che dicendo no al contatto fisico si incontreranno resistenza e discussioni, e alla fine ci verrà chiesto di fare qualcosa che non si vuole, si prepara il terreno per l’abuso e la mancanza di strumenti per difendersi.

Quando costringiamo un bambino a non tutelare i propri confini gli stiamo insegnando che va bene fare pressione su qualcuno che ci ha già chiaramente detto di no e che in situazioni come queste resistere è inutile, perché alla fine la figura autoritaria ti costringerà a cedere. Stiamo sempre parlando di consenso e nello specifico, di consenso in una dissimmetria di potere. Ci ricorda qualcosa?

I sentimenti dei nostri figli devono iniziare a far parte della conversazione, in modo da poter riconoscere il loro diritto, come quello di qualunque persona, a dire di no.

2.“Fa così/ ti spinge/ ti tratta male perché gli/le piaci”

Insegniamo ancora ai nostri bambini e alle nostre bambine che i comportamenti scorretti siano sintomo di interesse. Lo facciamo molto di più con le bambine, se ci facciamo caso, perché anche attraverso azioni come queste rispondiamo alla fissità dei ruoli di genere tradizionali. “Fa così perché gli piaci” sono parole pericolose, che in sostanza condonano atti di prevaricazione, anche fisica, con il pretesto dell’affetto.

Sappiamo perfettamente che insulti, attenzioni e commenti indesiderati, violenza e molestie non sono accettabili, eppure, quando si tratta di persone piccole, pare che queste regole che riteniamo incontrovertibili decadano. Facciamo molta fatica a ritenere persone i bambini. Probabilmente non siamo in grado di pensarli così per il semplice fatto che ancora non hanno acquisito indipendenza o abilità che riteniamo fondamentali. Ma questa se vogliamo è un’aggravante, mica un’attenuante.

Avallando comportamenti simili mettiamo le nostre figlie e i nostri figli nella posizione di pensare che sia normale e accettabile essere trattati in modi abusanti o che lo meritino. Amare non significa controllare, se qualcuno vuole controllare il tuo corpo o una sua parte non va bene. Il consenso non è irrilevante, dobbiamo sempre dare il permesso a un’altra persona di interagire nel nostro spazio personale o con il nostro corpo.

I comportamenti hanno conseguenze: se qualcuno ti spinge, ti ferisce o entra in contatto con te in un modo che non vuoi questa cosa deve essere problematizzata. E questo a prescindere che i nostri bambini si trovino da una parte o dall’altra, o come diremmo: siano vittime o carnefici.

Interrompere questi comportamenti insegna, soprattutto ai ragazzi, quale possa essere un modo sano per esprimere le proprie emozioni. Il modo in cui gli adulti parlano delle relazioni a seconda del genere è fondamentale: chiediamoci se le narrazioni che portiamo avanti siano simmetriche nel potere e rispettose per le persone coinvolte.

Bambini e bambine devono sapere che è giusto allontanarsi da qualcuno che è stato aggressivo e che sottrarsi a comportamenti che non ci fanno sentire sicuri è una risposta valida. Come dice quel famoso slogan: No is a full sentence.

3. Rafforzare la vergogna o il silenzio attorno alle sensazioni legate al corpo

Invece di intavolare conversazioni positive e adeguate allo sviluppo su corpi, affettività e intimità, molti genitori vengono presi dall’imbarazzo e lasciano cadere le domande nel vuoto. Non sono discorsi semplici perché probabilmente, come adulti, non siamo stati abituati a farli e questo genera disagio e frustrazione.

Eppure, anche solo nominare le parti intime con i loro nomi corretti (o anche gergali) può ridurre il senso di vergogna e aiutare bambini e bambine a sentirsi attrezzati a comunicare con qualcuno di cui si fidano. Chiamare le cose con il proprio nome è sempre una buona idea: lo facciamo con le emozioni per distinguere la tristezza dalla rabbia, a esempio, e per riferisci al mondo che ci circonda. Appoggiarsi al linguaggio permette di poter comunicare cosa ci succede perché quando nominiamo qualcosa, quel qualcosa inizia ad avere una immagine nella nostra testa e possiamo parlarne anche se esploriamo sensazioni che non conosciamo, ci provocano paura o non sappiamo identificare.

È normale che i bambini siano incuriositi dal proprio corpo e dal suo funzionamento, ed è normale che, anche nell’età prepuberale, si masturbino. Etichettare questa forma di auto-esplorazione come negativa o evitare del tutto l’argomento con i nostri figli e figlie, può rendere difficile per loro sentirsi a proprio agio con il proprio corpo e le proprie sensazioni fisiche.

Come adulti, un modo in cui possiamo coltivare uno spazio sicuro per i bambini è educare noi stessi su argomenti che consideriamo tabù; alcuni di noi, complici idee errate o educazione ricevuta, potrebbero avere preconcetti basati sul punto di vista dei propri genitori o su altri aspetti, come il modo in cui noi stessi siamo stati introdotti alla sessualità. Ma noi non siamo i nostri figli e, sebbene siano una nostra responsabilità, i loro corpi e le loro esperienze appartengono a loro. Per sostenerli nelle loro esperienze possiamo leggere, discutere, farci domande che partano dal nostro vissuto.

Decostruire miti, tabù, stereotipi legati alla sessualità nella coppia e decostruire i rigidi ruoli di genere che la società ci consegna è fondamentale per passare poi informazioni e comportamenti divergenti. I ruoli di genere includono tutta una serie di comportamenti e atteggiamenti che per convenzione riteniamo accettabili, appropriati e desiderabili per le persone in base al loro sesso biologico (o percepito).

Le aspettative dei ruoli genere influiscono sullo sviluppo di bambine e bambini perché raccontano loro cosa significa appartenere a uno specifico genere: ci si aspetta che le ragazze siano silenziose e premurose e che intendano “sì” anche quando verbalizzano un no, che parlino poco e che in generale non abbiano una postura esuberante.

Ai ragazzi viene richiesta aggressività nelle relazioni, che non si facciano piegare dalle proprie emozioni, che non piangano. Il problema sorge quando queste aspettative diventano dogmatiche, quando cioè tutto ciò che non rientra in questi rigidi parametri viene rifiutato.

Se non siamo noi genitori i primi a decostruire queste norme non potremo insegnare ai nostri figli che esistono altre opzioni e se con l’esempio nella nostra relazione di adulti non riusciamo a smantellare i ruoli di genere, sarà molto difficile per i nostri figli farlo da sé. La mamma non risponde a un’accusa o a un insulto da parte del papà perché “le donne devono disinnescare?” Il papà fa battute stanche su qualcosa che ha a che fare con relazioni o sessualità, ledendo la dignità del genere femminile? Si chiede il permesso in casa per i contatti fisici o li si pretende? Ci si scambia affetto parlando apertamente delle proprie emozioni? Quanto sono importanti i desideri (anche corporei) dei bambini e delle bambine e quanto onesto è lo spazio di dialogo che apriamo per loro?

Parlare apertamente è uno dei modi per generare uno spazio sicuro, in cui bambini e ragazzi si sentano a loro agio nel fare domande. Portare una visione positiva e rispettosa dell’affettività e della sessualità in contrasto con i tanti messaggi stereotipati e dannosi che a livello culturale e sociale ancora si trasmettono è la chiave per un sereno rapporto tra i generi e il rispetto del consenso. Dare l’esempio è un punto prezioso. Ma per dare l’esempio bisogna, prima di tutto, sapere da quali esempi allontanarsi.

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