Diritti

Figli di un dio minore: i lavoratori del settore della moda (e non solo)

Sfruttati, mal pagati e spesso in pericolo. I lavoratori di questo ambito, soprattutto in alcune zone del mondo, hanno pochissime tutele, nonostante le imposizioni per le grandi imprese di eseguire controlli
Credit: Lidya Nada 
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27 maggio 2023 Aggiornato alle 06:30

A distanza di poco più di 10 anni dalla tragedia del Rana Plaza, in cui il crollo di un palazzo in Bangladesh provocò la morte di 1134 persone e il ferimento di oltre 2500 che lavoravano in varie fabbriche tessili, tanti si interrogano sulle condizioni dei lavoratori di quello che un tempo veniva definito il terzo mondo.

Il tema che mi sta a cuore riguarda però non soltanto il profilo della sicurezza, quanto quello delle retribuzioni e dei tentativi europei di porre sistemi di controllo che possano assicurare il rispetto dei diritti umani.

Si parla molto della Supply Chain Directive (già introdotta in Germania), che impone alle grandi imprese di eseguire controlli sull’intera filiera produttiva, anche per quanto concerne le lavorazioni eseguire all’estero, nel tentativo di arginare lo sfruttamento dei lavoratori, la violazione dei diritti umani e i danni all’ambiente.

La normativa impone un sistema di controlli, introducendo responsabilità in capo all’impresa e prevedendo sistemi di whistleblowing che possano facilitare la segnalazione di condotte non corrette.

Il punto è capire quale sarà il metro sul quale misurare il rispetto dei diritti e quanto saremo ipocriti nel valutarli.

Qui ritorno alla tragedia del Rana Plaza: fu casata da un cedimento strutturale di un edificio, che aveva palesato gravi lesioni prima del collasso, ma mentre i lavoratori di alcuni piani costituiti da uffici vennero invitati a non presentarsi al lavoro, gli operai del tessile non furono dispensati.

Era il 23 aprile del 2013 e subito dopo sorsero movimenti quali Fashion Revolution per moralizzare quel mondo del superfluo che spesso coincide con la moda, cercando di assicurare ambienti di lavoro più sicuri e trattamenti economici dignitosi.

Vediamo allora cosa accade oggi e come e se i lavoratori di questa industria hanno visto migliorare le proprie condizioni di vita.

Questi sono i salari mensili in varie parti del modo in base a una rilevazione eseguita nel 2020, i cui valori appaiono ancora attendibili: di fronte a una media di 1160 dollari negli Stati Uniti, abbiamo 266 dollari in Malesia, 217 dollari in Cina, 63 in Bangladesh.

L’Etiopia, spesso decantata come l’economia africana emergente, vede un salario mensile di 26 dollari: uno al giorno, meno di quanto un italiano spende per un caffè al banco del bar. “Costa meno di un espresso”, lo slogan spesso utilizzato per invitare a fare la carità, è quanto guadagna un essere umano in una giornata di lavoro.

Sebbene i salari non possano essere considerati mai in valori assoluti, ma secondo il loro potere di acquisto, è bene considerare che il reddito pro-capite medio in Etiopia è più elevato (circa 75 dollari mensili). Eppure ci sono persone che si assoggettano a tale sfruttamento, se le cronache ci dicono che in Etiopia le donne, che rappresentano la quasi totalità della forza lavoro di tale industria, sono vittime di vari tipi di soprusi a partire da quelli sessuali per ottenere e mantenere tali forme d’impiego.

Ed è qui che voglio richiamare l’attenzione: riusciremo mai a moralizzare lo sfruttamento lavorativo? Sarà sufficiente una legge che impone la due diligence sull’intera catena produttiva, quando basta andare a parlare con qualche migrante regolarizzato in Italia che lavora in una stazione di servizio di carburante o in un ristorante, per scoprire che spesso quando sono messi in regola, il contratto di lavoro sottoscritto e per il quale sono pagati prevede 4 ore di lavoro giornaliero mentre nei fatti rimangono 8 o 12 ore al giorno?

Mi chiedo quindi come saranno eseguiti effettivamente i controlli in regioni diverse e distanti dalle nostre, se non riusciamo ad assicurare il rispetto dei diritti quando le cose avvengono sotto i nostri occhi. Mi chiedo chi potrà dire nulla se saranno rispettate le leggi locali, quand’anche esse prevedano dei minimi retributivi ridicoli.

Il timore è che tale normativa diventi un semplice velo che maschera la perpetuazione dello sfruttamento delle persone e della natura.

Ciò non vuol dire che non vada introdotta o che non sia degna di apprezzamento, il mio è solo un invito a non abbassare la guardia, a porsi sempre domande, a incentivare una stampa libera e indipendente, non al soldo delle multinazionali e che possa ogni giorno fare sapere cosa effettivamente accade.

Un invito a chiedersi perché una maglietta debba essere prodotta in compound lontano da occhi indiscreti in Etiopia, ma anche a Prato; perché vi debbano essere continui sub-appalti che allungano la catena di produzione e mettono una distanza difficilmente colmabile tra chi produce, spesso senza rispetto della dignità umana, e chi applica il marchio che rappresenta lusso ed esclusività, e si autoincensa in nome di una sostenibilità che si risolve molte volte in una mera petizione di principio.

Un invito a ricordarsi che non dovrebbero mai esistere figli di un dio minore e a lottare per impedirlo.

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