Diritti

Perché non stiamo parlando di consenso?

Oggi sembra essere ancora difficile riconoscere la vera causa della violenza di genere. Allora proviamo a ripartire dalla formazione a scuola e dall’educazione all’affettività
Credit: Hakeem James Hausley/pexels
Ella Marciello
Ella Marciello direttrice comunicazione
Tempo di lettura 6 min lettura
19 agosto 2023 Aggiornato alle 06:30

La sentenza che ha visto assolvere 2 giovani di 19 anni (all’epoca dei fatti), accusati di stupro di gruppo dal Tribunale di Firenze sta facendo, per dirla con un eufemismo, discutere. Per il giudice sono innocenti: non punibili «per errore sul fatto che costituisce il reato». In pratica, hanno dato per scontato il consenso, non riuscendo a percepire la differenza con un “no”.

Non conta nemmeno, per il giudice, che la ragazza abbia ripetuto diverse volte: “smettetela”; anzi, il fatto che la giovane avesse avuto precedentemente rapporti con uno di loro ha giocato purtroppo a suo svantaggio.

Come se il consenso dato una volta si estendesse in automatico a ogni occasione successiva. Come se il concetto stesso di consenso possa essere dato per scontato e il non comprendere in quale situazione ci si trovi (è consenso? Non lo è?) possa davvero essere preso come un “libera tutti” anziché una aggravante. Continuiamo a scusare gli aggressori per non aver compreso anziché proteggere le vittime, cosa inammissibile in uno stato di diritto.

Secondo il sondaggio Eurobarometro del 2016, condotto dalla Commissione Europea, più di 1 europeo su 4 pensa che i rapporti sessuali senza consenso possano essere giustificati. Tre quarti degli intervistati (74%) affermano che la violenza domestica contro le donne è comune nel loro Paese. Meno di 1 su 5 (18%) sostiene che toccare un o una collega in modo inappropriato e contro la volontà non dovrebbe essere illegale e 1 intervistato su 10 (11%) afferma che costringere il partner a fare sesso non dovrebbe essere contro la legge.

Inoltre, l’indagine rivela anche la persistenza di atteggiamenti colpevolizzanti e allarmanti nei confronti del consenso. Per esempio, più di 1 intervistato su 5 (22%) ritiene che le donne spesso inventino o esagerino affermazioni di abusi o stupri.

Si legge inoltre, nella sentenza, che gli imputati erano “condizionati da un’inammissibile concezione pornografica delle loro relazioni con il genere femminile, forse derivante da un deficit educativo”.

Ma chi si deve occupare di questo “deficit educativo” se non lo Stato stesso, con le sue politiche e azioni di prevenzione e controllo? E se l’educazione al consenso, alla parità, al rispetto dell’altra persona è centrale, come mai si continua a osteggiare l’educazione all’affettività nelle scuole?

Educare alla prevenzione

La maggior parte della prevenzione della violenza si è concentrata, negli anni, sull’obiettivo sbagliato, ovvero sulle donne. Educhiamo bambine e ragazze ad adottare strategie per non essere sottoposte a violenza consigliando abbigliamento, orari da evitare, azioni che è meglio non compiere. Nonostante innumerevoli comportamenti che le donne mettono in atto la violenza, i femminicidi, le molestie nei luoghi di lavoro continuano a esistere. Perché?

Perché ci sfugge, nella maggior parte dei casi, la causa stessa della violenza di genere: non ha a che fare con il sesso, con la pornografia, con le azioni delle donne. Ha a che fare con il potere.

E se dentro certi confini culturali, certe “bolle”, questa concezione è cristallina, al di fuori non lo è e non lo è proprio perché è la cultura dominante a non permettere infiltrazioni consapevoli circa il movente della violenza di genere. Dobbiamo iniziare a dire chiaro e forte e in ogni luogo possibile che le donne non subiscono violenza maschile perché gli uomini sono gelosi, non contengono i propri istinti, sono traviati dai ruoli dipinti dai media: le donne subiscono violenza perché agli uomini viene insegnato culturalmente (e perciò vengono socializzati da altri uomini) che si può. Che è normale. Che è ammesso e accettabile. Che non si verrà puniti per questo.

Le sentenze (dai “10 secondi”, ai “jeans”, al “troppo brutta perché si compisse lo stupro”) ci raccontano esattamente questo humus culturale in cui le donne sono soggiogate dalla mano maschile perché la mano maschile che soggioga è intesa come fatto naturale.

Il punto è che non lo è. E per riconoscere come non lo sia dobbiamo essere pronti a smantellare i costrutti culturali che ogni giorno ci impediscono di concepire i generi come paritari, anziché come in un rapporto di subordinazione.

Il condizionamento sociale di ragazzi e ragazze durante gli anni formativi influisce sui ruoli e sui comportamenti legati al genere e può avere un impatto sui modelli di violenza e vittimizzazione che si protraggono nelle loro vite successivamente. Pertanto, la promozione di ruoli di genere sani tra i giovani è la chiave per creare relazioni più paritarie in cui il consenso è rispettato e per prevenire la violenza di genere.

L’educazione deve affrontare le dinamiche di potere

I rapporti trai generi devono essere ripensati e devono essere esaminati in diversi termini, a partire dalle scuole. Bisogna investire risorse nella formazione dei funzionari preposti a garantire sicurezza, ascolto e tutele alle donne.

Bisogna garantire a qualunque donna che si trovi in una condizione di abuso, violenza, molestia di poter trovare personale competente e preparato sulle questioni legate alla violenza stessa, senza il timore di dover incappare in dinamiche di vittimizzazione secondaria, racconti mediatici svilenti della dignità, processi iniqui e faziosi.

Le storie che leggiamo non sono fulmini a ciel sereno, sono il prodotto di una stratificazione culturale machista e dominante, sono il risultato sanissimo dello status quo patriarcale che alimenta e protegge se stesso. Interrompere questa catena è cosa ardua, ma ognuno e ognuna di noi deve poter avere le risorse necessarie per fare la propria parte. E se il problema è culturale, altra soluzione non esiste che non sia culturale anch’essa.

Eppure, in Italia, l’educazione all’affettività nelle scuole è stata osteggiata duramente: sono 16 le iniziative parlamentari nel tempo inutilmente avviate per normare la sua introduzione, dal 1977 al 2019. Sono tantissimi gli esempi virtuosi di altri Paesi in cui l’educazione sessuale e affettiva esiste e funziona: a esempio in Australia viene insegnata dalla scuola materna fino ai 12 anni, utilizzando un linguaggio corretto e adeguato a sviluppo ed età.

Dimentichiamo spesso che l’educazione affettiva e sessuale è un diritto dell’essere umano, che non riguarda soltanto l’ambito dell’istruzione ma anche quello della salute “per sviluppare relazioni sociali e sessuali basate sul rispetto”, come afferma l’Unesco.

Una relazione sociale sana è l’unica che non porta a nessuna forma di abuso, in alcuna circostanza e in relazione a nessuna persona. Come mai ci stiamo precludendo la possibilità di avere cittadini consapevoli rispetto alle dinamiche di potere che intercorrono tra i generi? Perché ci riempiano la bocca di tanti discorsi sulla prevenzione quando l’unica prevenzione possibile sarebbe istruire quegli stessi cittadini e cittadine a una convivenza basata sulla parità, il rispetto reciproco, la salute garantita per chiunque?

Il vero nemico dell’oppressione patriarcale è l’educazione. E non credo sia un caso che proprio a partire dall’istruzione si incontrino così tanti ostacoli.

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