Economia

Quanto ci costa la violenza maschile sulle donne?

Secondo l’Onu, il 2% del Pil mondiale, mentre in Italia oltre 39 miliardi di euro (dati dell’European Institute for Gender Economy). E se provassimo, invece, a investire nell’educazione sessuo-affettiva?
Credit: Isi Parente
Azzurra Rinaldi
Azzurra Rinaldi economista
Tempo di lettura 4 min lettura
22 agosto 2023 Aggiornato alle 06:30

Uno dei grandi motivi di frustrazione di questi giorni, per moltissime donne, risiede nel fatto che le nostre voci di dolore sembra non bastino. Che non siano sufficienti le grida di aiuto, le preoccupazioni espresse o sottaciute, quel senso di pericolo profondo che molte, moltissime di noi stanno sentendo sempre più forte nella pancia e condividono ad amici e partner, o anche sui social.

E allora, ognuna trova rifugio in qualcosa che la conforti. Io lo trovo nei numeri. E se la nostra angoscia, di fronte a tutto quello che sta succedendo, non fosse sufficiente, mi auguro possano esserlo i dati.

Quanto costa la violenza sulle donne

Secondo le Nazioni Unite, la violenza sulle donne ha un costo che ammonta al 2% del Pil mondiale. All’incirca, parliamo dell’odierno Prodotto Interno Lordo del Canada. In valori assoluti, si tratta di circa 1.500 miliardi di dollari. Anche la Commissione Europea ha stimato il costo complessivo della violenza di genere sui Paesi membri, che ammonterebbe a oltre 366 miliardi di dollari.

Come viene speso questo denaro? Secondo lo European Institute for Gender Economy (EIGE), le voci più importanti sono quelle per fornire i servizi legati all’impatto fisico ed emotivo della violenza (per il 56%) e i servizi di giustizia penale (per il 21%). Ma EIGE misura nel 14% anche la perdita di produzione economica che dalla violenza di genere deriva.

La situazione in Italia

È ancora EIGE a fornire una proiezione per l’Italia per il 2021. Nel nostro Paese, il costo della violenza di genere ammonta a oltre 39 miliardi di euro. Vogliamo fare una stima veloce pro capite? Si tratterebbe di circa 1.700 euro a persona, ogni anno.

Molti dati sono poi contenuti nel bel libro Il costo della virilità. Quello che l’Italia risparmierebbe se gli uomini si comportassero come le donne, di Ginevra Bersani Franceschetti e Lucile Peytavin. Il volume presenta dati raccolti nel 2018 secondo i quali gli uomini rappresentano: il 99% degli autori di stupri, il 92% delle persone imputate per omicidio, l’82% di quelle che hanno compiuto un reato per il quale è stata aperta una procedura penale nel corso dell’anno. Ma anche il 93% degli spacciatori, il 93% degli usurai e il 92% degli evasori fiscali.

Le autrici propongono una stima semplice: cosa accadrebbe se dovessimo solo pagare collettivamente per il comportamento antisociale delle donne e non per quello degli uomini?

Ecco allora i risultati di questo studio. Il costo della mascolinità tossica sull’economia italiana ammonta a quasi 99 miliardi di euro l’anno. In termini percentuali, stiamo parlando del 5% del Pil italiano (dati 2019). Vuoi sapere quanto questo impatti sul bilancio delle forze dell’ordine? Oltre 10 miliardi, su un totale di poco meno di 16.

Not all men (ok, però…)

A questo punto urge il solito disclaimer. Ovviamente, non tutti gli uomini sono stupratori. Non tutti gli uomini sono assassini. Ovviamente, non tutti gli uomini delinquono (e mi sento di dire: ci mancherebbe altro). Ma il primo passo per la risoluzione di un problema, ci dicono i terapeuti, è la consapevolezza. E non possiamo evitare di osservare che qui abbiamo un problema che è sistemico, che è strutturale, che è prima di tutto culturale. E che è legato alla concezione delle donne, alla loro valorizzazione, ma anche a una cultura performativa della virilità.

Come altro potremmo spendere il denaro pubblico? In molti invocano pene esemplari, castrazione chimica, potenziamento delle forze dell’ordine. Ok.

Oppure, potremmo investire nell’educazione sessuo-affettiva.

E anche qui, partiamo da un dato. Secondo il Global Education Monitoring Report dell’Unesco, l’Italia è l’unico Paese europeo, insieme a Cipro, Bulgaria, Polonia, Romania e Lituania, a non prevedere programmi di educazione sessuo-affettiva curriculari obbligatori. In Svezia, sono stati introdotti negli anni ‘50, in Francia negli anni ‘70, in molti Paesi di pari passo con l’ora di religione. Vale forse la pena di ricordare che quello all’educazione sessuale e affettiva rientra nella categoria più ampia del diritto alla salute.

E allora, ti confesso: personalmente, faccio proprio fatica a capire la resistenza culturale di parte del Paese nell’accrescere le fonti di istruzione e consapevolezza dei nostri figli e delle nostre figlie. Non sarà che continuiamo a rifiutarci di accettare che soluzioni semplici non sono efficaci per affrontare problematiche complesse?

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