Ambiente

Fa caldo, caldissimo. E continuerà a farlo

Grandinate, venti che alimentano le fiamme, trombe d’aria che si portano via tutto e isole divorate dagli incendi. Sembra l’apocalisse, ma di divino non c’è proprio nulla: è la crisi climatica. Ed è tutta colpa nostra
Credit: Matthias Oesterle/ZUMA Press Wire
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26 luglio 2023 Aggiornato alle 06:30

Fa caldo e se rinfresca è grandine o tempesta. Cadono vasi e tegole di terracotta, suoni duri come spari portati dal vento. La notte, dalle tapparelle filtra lo scatto continuo dei lampi, scariche elettriche come flash di una gigantesca macchina fotografica.

La terra è secca, poi improvvisamente allagata. Ci sono isole di fuoco da cui si fugge, e isole impastate di fango in cui si affonda. Pure le radici degli alberi perdono la presa.

È una Terra da record quella che abitiamo. A luglio è stato registrato il giorno più caldo di sempre con una media globale di 17,08 gradi centigradi. Giugno gli aveva aperto le danze, piazzandosi come il più caldo di tutti i giugno passati. Ma poi c’è pure l’Oceano che colleziona temperature strabilianti, con l’Atlantico che si posiziona ben 5 gradi oltre la sua soglia normale. E che dire dell’Artico, il cui ghiaccio è del 10% inferiore ai suoi minimi storici?

Sembra la fine del mondo, un’apocalisse di terra e acqua. Ma non è nulla di così biblico: è la crisi climatica che ha ben poco del divino, e molto dell’umano. Il climate change è il prodotto residuale dell’attività antropica. Un risultato laterale prevedibilissimo, anzi pronosticato da decenni, ma rimasto a margine. Ignorato fin tanto che è stato possibile. Ovvero fino a che l’opinione pubblica occidentale non si è ritrovata chiusa in città fornaci, con ombre bollenti e un sole a picco.

L’Ipcc ha chiaramente attribuito le condizioni climatiche all’attività dell’essere umano. Ma quale attività? Non basta essere umani e vivere per creare questo disastro, serve qualcosa di più che trasmuti l’uso di risorse in un impegno su vasta scala. Il problema infatti è il sistema produttivo capitalista, legato a doppio, forse anche triplo, filo all’industria dei combustibili fossili, un settore che si basa su estrazione, raffinamento e trasporti.

Serve del carburante per mantenere in piedi la macchina produttiva. Come sangue, i combustibili fossili irrorano ogni parte della nostra vita. Dall’elettricità al materiale di cui sono fatti gli abiti, dall’auto privata ai frigoriferi dei supermercati: il fossile scorre con noi, in ogni gesto di consumo.

Consumare, e farlo di più, per sentire di aver fatto qualcosa della giornata e della propria vita, di aver raggiunto un traguardo che ha permesso di acquisire quel “qualcosa” di così importante e riconoscibile. Il consumo continuo del nuovo è talmente radicato nelle nostre vite da essere diventato un nuovo apparato cultuale a sé.

Con il consumo esprimiamo affetto, leniamo ferite interiori, passiamo il tempo e ci divertiamo. Proviamo piacere tramite il consumo. Affermiamo dominio. Vite per il consumo. Di tanti “qualcosa” che, alla fine del giorno, del mese, dell’anno o della vita diventano spazzatura. Un ingombro inerte che perde la sua forma più specifica e diventa sola “cosa”, una roba informe che va a soffocare la terra per decenni se non secoli.

Ed eccoci là, alla fine del cerchio dell’iperconsumo, con una montagna di pattume a testimoniare che alla fine siamo stati qui. Andiamo nei centri commerciali e sugli e-commerce per lasciare traccia e siamo illusi che solo così non scopriremo in punto di morte di non essere vissuti.

Prendiamo, compiamo e rendiamo la somma di questo agire nelle “cose”. Ma anche nei “chi”. Negli animali non umani serviti a tranci sulle tavole o spremuti nei bicchieri di latte, nelle persone che si ritrovano nei capannoni del tessile a conciare abiti che verranno usati per una stagione; negli individui che annaspano negli oceani e nelle foreste in cerca di un cibo che non c’è più, in chi sta per mesi su un peschereccio del Pacifico, senza poter toccare terra, a pescare tonni per fornire sushi a nastro.

Da grandi produzioni derivano, necessariamente, grandi sfruttamenti. Perché ci sia un accumulo, dopotutto, bisogna pur racimolare risorse da qualche parte. E nel farlo, il capitale converte la ricchezza di tutti in ricchezza di pochi. In un mondo di risorse finite, è difficile pensare di poter continuare all’infinito. Ma se il dogma è la crescita, allora non ci sono alternative. Anche quando si tratta di suicidio di specie. Crescere, accumulare e reinvestire. E allora si guarda a Marte, si privatizzano le missioni spaziali, si crivella la Terra non appena i ghiacci si ritirano, perché il credo è quello di trasformare tutto in opportunità. Vedere il bicchiere mezzo pieno, raccontare lo sfruttamento come lavoro, l’ecocidio come spinta propulsiva verso una nuova, migliore, economia di capitale.

Così, non cambia nulla, a parte il clima. Quello non si lascia corrompere. Ha accumulato più di quanto avrebbe voluto e ora scarica, si trasforma. Sembra l’apocalisse: un’apocalisse impestata da un frastuono di fondo sedato in rumore bianco. Eppure non è proprio la fine, non solo perché la Terra andrà avanti con o senza umanità, ma anche perché ancora, qualche cartuccia da giocare ci rimane.

Il sistema ci vuole eroici consumatori ecologici, in modo da non doversi mettere in discussione. Servono lavori collettivi, impegni politici orizzontali, mobilitazioni di masse che già sono in atto. Immagino che shock, per l’economia, ma anche per noi, come singoli, se scioperassimo interamente dal consumo. Se smettessimo di rincorrere il “qualcosa”, e ci tenessimo quel che serve. Se interrompessimo la catena di produzione e tortura non umana e spegnessimo, all’improvviso, il 14,5% delle emissioni GHG - gas serra annualmente prodotte. Ci serve una politica nuova, cosciente e realmente in grado di fare le scelte necessarie.

E ci serve una nuova cultura, capace di ricordarci che siamo creature politiche, con un peso politico. Che illuderci del contrario è stata una bella mossa per toglierci potere e consapevolezza.

Fa un caldo doloroso. Ma sarà persino peggiore se continueremo a chiamarlo Caronte o Caldo Africano, fingendo che sia qualcosa che soffia da lontano e non ci appartiene. Siamo negli anni in cui ci tocca scegliere da che parte stare. Negare la realtà e aspettare la Sciabolata Siberiana in inverno, o iniziare a chiudere il rubinetto del consumo e pretendere azione politica seria.

Fa caldo, caldissimo. E continuerà a farlo. A lenire questo mondo bollente sarà la nostra resistenza, fatta di innovazioni e cambiamenti.

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