Ambiente

Qual è il destino delle mucche da latte?

Dopo una vita produttiva, termina la loro “carriera”. E così, vengono imbarcate per un ultimo viaggio, verso la fine. Quella vera
Credit: Martina Micciché
Credit: Martina Micciché
Tempo di lettura 6 min lettura
21 luglio 2023 Aggiornato alle 06:30

C’è chi pensa che le mucche producano latte tutto l’anno. Chi le immagina a pascolare leggiadre, nelle valli montane. Chi, ancora, pensa che la mungitura sia un aiuto, un supporto a questi animali in perenne lattazione.

Mucche felici, nutrite a sazietà, a volte con un piccolo al seguito, che contribuiscono a rifornire di latte le tavole umane. Formaggi industriali o d’alpeggio, latte intero, latte senza lattosio, yogurt a basso contenuto di grassi, formaggi spalmabili e formaggini per bambini, polvere di latte, creme al cioccolato, biscotti, pane in cassetta, sughi, cereali, barrette energetiche, gelati, liquori: la lista dei prodotti alimentari che contengono il latte in qualche sua forma è lunga, infinita. È ovunque, soprattutto se si considera la presenza disarmante nelle liste ingredienti delle proteine nel latte, che si affacciano anche in quegli alimenti che, in teoria, dovrebbero essere vegetali.

Dalla colazione alla cena, si fa strada nel nostro stomaco, in attesa di essere digerito. Stando alle stime, solo il 50% degli italiani è in grado di portare a compimento questo processo; l’altra metà fatica, si gonfia, ha problemi intestinali o dolori derivati dall’insufficienza di enzima lattasi, quello che, in pochissime parole, permette di di digerire completamente ciò di cui è composto il latte, vaccino o caprino che sia.

Chi soffre di intolleranza al lattosio, pur di non privarsi del latte animale, assume sostituti enzimatici formulati con lattasi, per alleviare i sintomi e continuare a ingollare formaggi, yogurt, torte e merendine confezionate. In un sistema di produzione continuo, che la lavora a nastro.

Parliamo di volumi, quelli nostrani, pari a 10,5 se non 11 tonnellate di litri all’anno, che vanno a coprire il 7% della produzione europea. Solo per il latte bovino, stando alle dichiarazioni di Assolatte, sul territorio sono mantenuti 30.000 allevamenti, componendo un settore che vale 16,5 miliardi di euro.

Numeri da capogiro, ma che impallidiscono di fronte a quello meno noto del numero di vacche da latte allevate in Italia: 2 milioni 612.729, secondo i dati del 2019.

2 milioni di animali che vengono allevati, mediamente in strutture intensive, allo scopo di produrre il maggior quantitativo di latte con il minor impiego di spazio, tempo e risorse. La lattazione è ottimizzata, un foglio di calcolo e di procedure che trasforma il processo fisiologico di produzione del latte in una quota produttiva.

Sfugge un dettaglio, cruciale, ma così abilmente mascherato dal mito delle vacche felici: come tutti i mammiferi, le vacche producono latte in risposta allo stato di gravidanza. Dunque, per garantire la presenza costante di bottiglie di latte o di derivati nelle ante dei frigoriferi, è necessario che questi animali siano gravidi o in periodo di puerperio.

Una volta portata a compimento la gravidanza, natura vorrebbe che il cucciolo fosse allattato, ma trattandosi di una secrezione destinata al commercio, quel latte viene immediatamente munto per iniziare la raccolta. Il cucciolo, a seconda del sesso, viene destinato al macello o a diventare a sua volta produttore di latte.

La mungitura è protratta, meccanica nei ritmi e nei modi, distruttiva per l’organismo della vacca. Indicativamente gli animali iniziano a mancare le quote di produzione dopo 3 gravidanze, momento in cui smettono di essere una risorsa e si trasformano in costo. Rimane quindi da estrarre il valore finale dal corpo della vacca, quello derivato dalla sua morte.

Improvvisamente, che abbiano vissuto in allevamenti enormi, cascine, piccole stalle o estensivi biologici, le vacche si ritrovano caricate su camion di metallo alla volta della loro ultima destinazione: il macello.

La loro morte è l’ultimo ricavo degli allevatori e varia dai 500 ai 1.300 euro, a seconda dell’esemplare e dell’offerta proposta dall’impianto. Che le vacche da latte, oltre a patire le inseminazioni forzate, le mungiture, le violenze necessarie a contenerne la mole, finiscano con il diventare hamburger, carne inscatolata o bistecche, però, non è noto ai più.

Anche tra chi pensa di aver scelto uno stile alimentare più etico, come il vegetarianismo, non ha quasi mai contezza che il consumo di latte e derivati contribuisca alla medesima industria, produca gli stessi maltrattamenti e porti al solito scenario: quello di una vacca di fronte a una pistola captiva, mandata a morire dopo pochi anni dalla nascita.

Inalca, uno dei maggiori stabilimenti di macellazione italiani, vanta l’annua produzione di 500.000 tonnellate di carne, 200.000 tonnellate di hamburger, 40.000.000 di snack e 160.000.000 di vaschette di salumi pre-affettati.

La SP45, una strada provinciale, segna l’ultimo tratto percorso dai camion carichi di vacche prima di raggiungere la sede situata a metà nel lodigiano. Alcuni provengono da piccoli allevamenti, altri da maxi stabilimenti, altri ancora giungono da Regioni vicine. Al loro interno animali stanchi, esauriti dallo sfruttamento, assetati e stressati nello spazio metallico che li separa dalla morte, rimangono in attesa che il camion si fermi e che li scarichi. Ansimano nei furgoni bollenti, agitati, feriti, ricoperti dalla proprie feci, a volte incapaci di sostenere la propria mole e per questo sdraiati. Arrotolati su sé stessi come gatti.

Nella direzione inversa si allontanano i camion frigo, della Montana tra gli altri, presumibilmente carichi del risultato lavorato della macellazione. Osservando i furgoni in arrivo, si notano anche gli operatori diretti al luogo di lavoro. Qualche persona italiana arriva in auto. Ma più spesso, si tratta di operatori stranieri in bicicletta, monopattino o a piedi. Che escono così dalla provinciale per immettersi nel viottolo d’ingresso del macello. Persone che con tutta probabilità sono altrettanto sfruttate, assunte da un bacino di forza lavoro meno tutelato e, quindi, più facile da incastrare nei ritmi e nelle operazioni necessarie a trasformare un bovino in un pezzetto di carne senza nerbo. Inalca, nel mentre, si bea della sua produzione colossale, di quella mole spropositata di carne macellata ogni giorno, ogni ora.

Una massa di prodotto realizzata grazie allo sfruttamento finale delle vacche da latte, di quelle famose mucche che si pensa producano latte spontaneamente tutto l’anno, che siano felici abitanti di pascoli verdi. E che anche quando si trovano in montagna, all’aperto, rimangono prigioniere di un ciclo riproduttivo forzato, di spostamento comandati e di un fine vita che le vede finire nei piatti in forma di carne.

La chiamano “carriera”, ma non è un percorso lavorativo, bensì di sfruttamento. Certo che se le cose fossero chiamate con il loro nome, quell’enorme distesa di muscolatura e poltiglia di tessuti dentro i supermercati farebbe un po’ meno gola.

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