Bambini

Immigrazione: le rotte attraverso le voci dei giovani sopravvissuti

Mohammed (Costa d’Avorio), Ahmed (Egitto), Ali-Yar (Afghanistan) hanno raccontato a La Svolta i loro viaggi dell’orrore. Ma non sempre i bambini migranti ce la fanno: a Pylos si stima ce ne fossero almeno 100
Credit: Copyright 2021 The Associated Press
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20 giugno 2023 Aggiornato alle 20:00

«Mi chiamo Mohammed sono partito dalla Costa d’Avorio che non avevo ancora compiuto 14 anni. Decisi di andare da solo dopo la morte dei miei genitori e mi accodai a una carovana. Passammo la Guinea, il Mali dove rimanemmo molto tempo: dovevamo lavorare per pagare la tassa successiva ai trafficanti; poi finimmo in Algeria e dopo molti mesi, non ricordo quanti, ci dissero che bisognava attraversare il deserto. Pagammo molti soldi per essere trasportati in macchina. All’appuntamento vedemmo una grossa jeep e moltissime persone in attesa. Dissi a Sumaila, un amico maliano che mi ero fatto durante il viaggio, “Vedrai che arriveranno altri mezzi, non possiamo viaggiare tutti in quella macchina”. Non ne arrivarono: salimmo tutti su quella jeep che poteva contenere al massimo 9 persone mentre noi saremmo stati 40. Viaggiammo così per 9 giorni, con qualche sosta per fare benzina. Per far ripartire la macchina molti di noi dovevano spingere e salire in corsa. Alcuni non ce la fecero, non riuscirono a risalire e caddero, facendosi anche male. Rimasero lì a guardarci mentre ci allontanavamo, distesi a terra in mezzo al nulla, nel deserto del Sahara. Tanto avevano già pagato la loro quota…».

«Sono partito da Gharbiyya (Egitto, ndr) a 16 anni, senza neanche dire nulla a mia madre, non volevo vederla piangere. Siamo saliti su un pullman che ci ha portati ad Alessandria, poi un altro fino al porto di Dumyat (Damietta, ndr) e di notte ci hanno messi in un gommone, eravamo più di 50. In mare aperto ci sono venuti a prendere con una barca più grande in cui già viaggiavano altri, in tutto eravamo 115 persone, tutti egiziani. A un certo punto si è avvicinato un barcone ancora più grande e ci hanno detto: “Saltate quando si uniscono le onde!”. Il mare era agitato e non c’era tempo per mettere un ponte tra le 2 barche, in pratica dovevamo saltare quando le onde facevano avvicinare tra loro le due barche, era questione di un attimo, dovevi raccogliere tutte le tue energie, chiudere gli occhi e gettarti nel vuoto: se ti ritrovavi sull’altro barcone, bene, se cadevi in acqua, non ti considerava nessuno. Arrivati a bordo della terza nave ci hanno infilato nella stiva e dato cibi molto salati spiegandoci che servivano per non vomitare. Oltre a una fame terribile, avevamo sete e potevamo bere pochi sorsi al giorno. Poi si è presentato un uomo che ha chiesto a tutti noi altri soldi se volevamo mangiare e bere. Io ho urlato: “Ma non ci avevate detto che i soldi li avreste presi se ci portavate sani e salvi? Se continuiamo così moriamo tutti!”. Ma non è servito a molto, anzi quelli che tirarono fuori gli euro furono aiutati, noi …sbattuti nuovamente nella stiva. Dopo 4 giorni di navigazione sentimmo il conducente urlare “Ma dove ca…stiamo?”».

«Gruppi di curdi – racconta Ali-Yar, afghano fuggito a soli 12 anni con il fratellino Asadullah di 9 - attendono i clandestini dalla parte turca del confine con l’Iran e li sequestrano. Eravamo in 25, quasi tutti afghani, per liberarci chiedevano 6.000 dollari a testa. Ci tenevano dentro uno stanzone ammassati. Dopo alcuni giorni, se non arrivava il pagamento del riscatto, cominciavano a tagliare orecchie o dita. Ho visto ragazzi davanti a me a cui venivano amputati organi perché non avevano nessuno che pagasse per loro. Io avevo 16 anni, fui picchiato fino a perdere i sensi e poi costretto a telefonare a un mio parente che viveva in Iran. Fortunatamente abbassarono le pretese fino a 1.000 dollari e il mio parente glieli fece avere, così fui trasferito in Iran e rimasi per 2 mesi a Teheran».

Le storie di Mohammed, Ahmed e Ali-Yar possono essere raccontate dai protagonisti. Questo è già un miracolo. Si calcola (per difetto ovviamente) che nel Mediterraneo siano morte dal 2014 a oggi circa 28.000 migranti, 2.900 solo dal 1 gennaio di quest’anno. E dal dato sono escluse le persone che hanno trovato la morte prima di arrivare sulle rive del mare: una conta irrealizzabile vista l’impossibilità di aggiornare il numero di chi perde la vita nel deserto del Sahara, nelle carceri ciadiane o sudanesi, nei percorsi al gelo o a temperature torride per superare clandestinamente confini, nelle prigioni iraniane, turche, o alle frontiere tra Bosnia o Bielorussa e la civilissima Unione Europea le cui polizie (è documentato) torturano, derubano, massacrano regolarmente i migranti non ucraini che arrivano da est, anche minorenni.

È così che l’Europa “gestisce” il fenomeno migratorio. Oggi, all’indomani dello spaventoso naufragio avvenuto a Pylos, Peloponneso, che al momento in cui scriviamo annovera centinaia di morti accertati e che rischia di eguagliare, se non superare, quella che fin qui era considerata la peggiore tragedia nel Mediterraneo (Canale di Sicilia, 18 aprile 2015, oltre 700 morti, ndr) e di venire ricordato come la “strage dei bambini” (dalle prime testimonianze dei superstiti sembra che nella stiva ce ne fossero un centinaio), sembriamo esserne tutti più consapevoli. In realtà, questa insensata quanto macabra “gestione dei flussi migratori”, si perpetua giorno dopo giorno.

Non esiste un metodo legale per chiunque voglia venire in questo emisfero di mondo in fuga da guerre, disastri ambientali, dittature o, semplicemente, per studiare o cercare un lavoro. Quando sono stato nel febbraio in Uganda e in Kenya ho chiesto un visto di ingresso la mattina alle 10:15 e lo ho ottenuto nel pomeriggio alle 16:50. Al contrario, è de facto impossibile. L’unico modo per tentare l’affondo alla fortezza Europa è rivolgersi ai trafficanti, pagare una cifra che può variare tra i 3.000 e i 13.000 dollari, viaggiare anche per anni totalmente gestiti da questi tour operator dell’orrore, venire torturati, seviziati, assistere ripetutamente a violenze e a morti. Morire.

Il tutto perché il nostro continente vive ormai da decenni sotto l’incantesimo di presunte invasioni che, anche oggi che gli sbarchi e gli arrivi via terra sono in deciso aumento, esistono solo nella mente di politici e comunicatori. La punta massima di arrivi di irregolari in Unione Europea si è toccata nel 2015, all’apice della crisi siriana, con poco più di 1 milione di ingressi. Da allora, non hanno mai superato i 500.000, con punte bassissime di 139.000 nel 2019. Su una popolazione di 450 milioni circa, fanno lo 0, periodico.

Tanto per fare esempi di vere invasioni, l’Uganda, Paese dalle tante contraddizioni e problematiche, con 45 milioni di abitanti, ospita 1,6 milioni di profughi sud sudanesi, congolesi, somali. Il Libano, più piccolo dell’Abruzzo, con 4,5 milioni di abitanti, ha tuttora circa 1 milione di siriani oltre a palestinesi, iracheni etc.

Da domani si tornerà a parlare (sacrosantamente) di salvataggi in mare, di Ong, di accoglienza. Esattamente come da noi dopo Cutro, anche in Grecia, si sta mobilitando l’opinione pubblica scandalizzata dall’inazione del proprio Governo che adotta da anni una politica di chiusura totale verso i migranti, che porta inevitabilmente a tragedie come quella di Pylos: decine di migliaia di persone hanno manifestato ad Atene per chiedere più umanità.

Mancherà, purtroppo, dal dibattito, la madre di tutte le questioni: gli accessi legali. Piuttosto che dare soldi alla Turchia (dal 2016 ha già ricevuto 6 miliardi di euro dalla Ue per bloccare i migranti orientali), alla Libia (il Governo Gentiloni, guidato dall’iniziativa del ministro degli Interni Minniti, siglò uno scellerato patto con il Paese nordafricano nel 2017, noto al mondo per ospitare i peggiori lager, ancora vigente) o rivolgersi ora a Tunisia e Marocco, al solo fine di tenere lontani i migranti, non è venuto il tempo di ragionare su una effettiva gestione dei flussi? Una gestione rispettosa dei diritti e, lo dicono tutte le statistiche e gli studi, conveniente economicamente, prima che umanitariamente, anche a noi?

Si azzererebbero i traffici di esseri umani, si potrebbe garantire maggiore sicurezza a chi migra ma soprattutto a chi ospita perché la regolarità permette controllo; si andrebbe a rispondere a quella esigenza cronica che molti industriali e imprenditori italiani e europei lamentano, di mancanza di mano d’opera e, soprattutto, si metterebbe fine a questa specie di macabro, tragico movimento di esseri umani.

Se non basterà il modello Uganda a convincere, possiamo attingere a casa nostra: dallo scoppio della guerra in Ucraina, l’Ue ha aperto le frontiere e ospitato 8 milioni di profughi.

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