Economia

Quanto vale il tuo tempo?

Il 9,6% degli italiani lavora in media 49 ore a settimana: quasi 10 ore al giorno. Spesso, però, questa non è una scelta: con un solo stipendio non si va più avanti. E così si sacrificano le cose davvero importanti: la famiglia, gli hobby, il riposo. Il “dolce far niente”
Credit: Cottonbro studio 
Azzurra Rinaldi
Azzurra Rinaldi economista
Tempo di lettura 4 min lettura
7 maggio 2024 Aggiornato alle 06:30

Nascere, crescere (nel frattempo, studiare, in varia misura), lavorare, morire.

Per molto, moltissimo tempo (e soprattutto dalla seconda Rivoluzione Industriale in poi) non ci è mai venuto in mente, collettivamente, di mettere in discussione questo schema tanto semplice quanto inespugnabile.

E anzi, dagli anni ‘90 in poi, complice la ruggente globalizzazione che ha amplificato, esacerbandolo, il principio stesso del capitalismo (ovvero, l’accumulazione), il valore degli esseri umani, in molti contesti, è stato misurato anche dalla quantità di tempo che dedicavano al lavoro. L’equazione era semplice: molte ore della giornata spese lavorando erano la rappresentazione esteriore di un ruolo di potere, di grandi capacità, di una figura chiave, essenziale per l’azienda.

Siamo arrivati al punto in cui, secondo Eurostat, il 9,6% degli italiani lavora in media 49 ore a settimana. Pochi i Paesi che mostrano dati peggiori del nostro: la Francia, a esempio, con il 10,1% o anche l’Islanda, con il 13,8%. Ma perché molti italiani lavorano così tanto? La riposta è contenuta nella domanda: sono, in una certa misura, costretti a farlo perché un solo stipendio non è più sufficiente. E chi lo stipendio non ce l’ha? I dati per gli autonomi con dipendenti sono agghiaccianti: il 46% del totale lavora per più di 49 ore a settimana. Se non si hanno dipendenti, va già meglio: si arriva al 27,4%.

È comunque tanto. E lo è ancora di più in un momento, come quello che stiamo vivendo, che è attraversato da una profonda ridefinizione del lavoro, dei suoi tempi e luoghi, della sua stessa centralità nelle nostre vite.

Non sarà un caso che, secondo il Fondo Monetario Internazionale, il tempo speso lavorando è inversamente proporzionale al Pil pro capite. Detto diversamente: le persone ricche lavorano di meno. E infatti (ci dice sempre l’Fmi), nei Paesi più ricchi in termine pro capite, come i Paesi Bassi, si lavora di meno rispetto a quanto avviene in Paesi con una ricchezza pro capite inferiore, come a esempio la Bulgaria.

Eppure, negli Stati Uniti (che sono certamente un Paese ricco) si lavora, in media, più che in Europa. Secondo Oecd - Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, gli americani lavorano in media 1.811 ore l’anno, contro le 1.571 medie degli europei. E pensare che, fino agli anni ‘70, erano gli europei a lavorare di più. Le ore lavorate dagli americani sono rimaste più o meno stabili, mentre sono quelle degli europei a esseri ridotte. In alcuni casi, come la Germania, di circa il 30%.

E allora questo è, forse, uno di quei (frequenti) casi in cui i soli numeri non colgono la complessità dei fenomeni. Il lavoro cambia, la cultura del lavoro anche. Lo fa più lentamente in quei Paesi che hanno deciso di definire se stessi anche attraverso la propria dedizione totalizzante rispetto al lavoro, ma anche in quegli Stati, come il nostro, in cui la concomitanza di stipendi bassi e ridotta produttività fa sì che lavorare molto (lavorare troppo) non sia una vera scelta.

E chiudiamo con due conti facili, tornando ai dati Eurostat. Lavorare 49 ore a settimana, su una giornata lavorativa di 5 giorni, significa dedicare al lavoro circa 10 ore al giorno, eliminando necessariamente la gran parte delle altre attività non lavorative: il tempo speso con la famiglia, quello che dovrebbe essere destinato ai propri hobby o, in generale, alle attività che ci danno piacere, ma anche (per quanto rivoluzionario possa essere, una volta che si è costretti a contribuire all’ingranaggio del meccanismo capitalistico) il tempo di riposo. Il tempo del dolce far niente.

Nel film Mangia, prega, ama si diceva fosse una prerogativa della cultura italiana. Ma pare non sia più così.

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