Diritti

Non siamo il nostro lavoro

Sempre più spesso la professione che svolgiamo tende a identificarci e a posizionarci in una nicchia sociale prestabilita ma questo aumenta disuguaglianze, frustrazione e crisi interiori
Credit: Javier de Paz Garcia 
Tempo di lettura 6 min lettura
11 dicembre 2022 Aggiornato alle 06:30

Ciao, come ti chiami? Che fai nella vita?

Così, in due risposte ci si racconta e ci si presenta. Un’ identità impacchettata in pochi spazi, quello del nome - tendenzialmente scelto da qualcun altro - e quello della professione svolta - anche questa a rischio di essere frutto di scelte altrui.

Dai genitori che mettono il veto alle possibilità negli anni del liceo o in quelli delle università, cancellando qualsiasi velleità artistico-letteraria perché altrimenti il figlio potrebbe trovarsi a fare solo il professore, alle selezioni aziendali, passando per le possibilità a cui ognuno ha accesso in maniera differente. Insomma, il lavoro svolto è il risultato di un processo pieno zeppo di variabili esterne.

Eppure, cosa fai nella vita, conta quasi e quanto il nome. Certamente più delle cose che piacciono e appassionano, la professione svolta incastra in una precisa nicchia sociale.

Cosa fai, diventa chi sei, che ruolo occupi nel mondo. Essere riconosciuti per ciò che si fa limita però le persone, le rinchiude nei comparti stagni delle condizioni e delle circostanze del lavoro, a loro volta prodotto di condizioni socioeconomiche sulle quali il più delle volte gli individui non hanno potere.

L’Istat spiega, a esempio, che persone con genitori laureati hanno più probabilità di conseguire un titolo universitario e quindi di entrare nel mondo del lavoro con un titolo. E sebbene questo possa costituire un vantaggio strutturale per il mestiere che si svolgerà, non tutte le lauree sono uguali.

Anche il tipo di università frequentato cambia le possibilità, in Bocconi per una triennale sono richiesti oltre 13.000 euro di retta annui, una soglia non accessibile alla maggior parte delle persone.

Il sistema dell’Ivy league, che negli Stati Uniti identifica gli atenei più elitari, esiste anche qui seppur in dimensioni ridotte.

Le Università private offrono possibilità lavorative dirette. Basti pensare alla scuola Holden, ideata per aspiranti scrittori - abbienti - che permette ai propri studenti di presentare un pitch editoriale a diverse case editrice al compimento degli studi. Una porta laterale che costa 10.000 euro all’anno.

Per accedere a lavori socialmente considerati prestigiosi servono quindi, mediamente, ottimi status sociali di partenza e in quel caso di solito il proprio lavoro non pesa particolarmente. Lo stigma arriva per tutte le altre mansioni, quelle collettivamente dequalificate.

Anche se un leitmotiv di sottofondo unisce realtà disparate, essere il proprio lavoro è un serio problema.

L’identità fusa con l’attività incanala il percorso biografico e infonde nel lavoro il valore del sé.

Cosa accade quindi quando il lavoro diventa problematico o viene meno? L’identità è nuda, priva di un’impalcatura convenzionalmente riconosciuta e si ritrova in un nuovo segmento, lo spaventoso oceano della disoccupazione. La morale degli anni ‘80 ci ha voluto incravattati e con un mutuo sulle spalle, la realtà delle crisi protratte e degli scuotimenti del liberismo smodato lasciano conti in banca vuoti, adulti che hanno svolto la stessa mansione per decenni impossibilitati a trovare un nuovo lavoro e identità sgretolate.

E in un Paese che fonda la propria identità comunitaria sul lavoro il problema è persino più profondo. Si badi, l’articolo 1 della costituzione parla del lavoro, dell’azione. Non dei lavoratori, ma del prodotto della loro attività. L’Italia voleva essere un Paese proletario è dignitoso, ma si è risolto in una penisola di capitali instabili e iper concentrati passibili anche grazie a una delle economie sommerse più voluminose al mondo.

Come presentarsi in un tessuto sociale con un lavoro socialmente svalutato? Come inserirsi nuovamente nella propria vita quando l’io lavorativo è incastrato in una cassa integrazione o in un lavoro retribuito senza garanzie o coperture ufficiali? Cosa ricucire di sé quando il sistema restituisce idolatria verso i pochi lavori patinati e ben stipendiati?

Ci sono alcune generazioni che hanno imparato che il lavoro non è identità proprio per sopravvivere al mondo del lavoro. I millennial e più ancora i late millennial hanno perso il mito della professione molto presto.

La precarietà fa parte della nostra cultura lavorativa e, lascito e frutto dell’epoca d’oro del liberismo di Tatcher e Reagan, ci ha impresso addosso il senso di instabilità. Oscillando nel mondo del lavoro mettiamo in discussione tutto, qualsiasi dogma, consapevoli che nessuna promessa è certa di essere mantenuta.

Tra le cose che meglio si impara a rielaborare c’è proprio l’aderenza tra individuo e lavoro svolto. Chi si ritrova a trent’anni con due lauree a dare ripetizioni per riuscire a pensare di andare in affitto l’anno dopo, sa che una mansione non è definizione perfetta di chi lo svolge, piuttosto un riflesso del tempo che abita e delle carte che si è trovato tra le mani alla nascita.

L’idea di essere la propria professione dilata la forbice tra le classi. Avvocato, dirigente, jr manager. Impiegato, operaio, precario.

Assunto a tempo determinato o con la promessa del finché pensione non ci separi. Non assunto ma pagato senza contratto. Disoccupato o inoccupato.

Le vie del lavoro sono infinite, ma non sterminate.

Spingere a credere che le persone siano il lavoro che fanno aumenta il tasso di accettazione dello stesso, la dipendenza da una certa immagine e la propensione a fare di tutto per mantenerla. Dall’accettare straordinari non pagati, soprusi e sfruttamento di varia natura al non mettere mai in discussione sé stessi, l’identità del lavoro rischia di essere una trappola.

Soprattutto perché non si tratta di rifiutarla o accettarla, ma di riconoscerla come una condizione e non una caratteristica intrinseca. Il lavoro determina i nostri comportamenti sociali ed è a sua volta determinato dall’ambiente in cui si nasce, dalle opportunità a cui si ha accesso e da quelle negate.

Sapersi scindere significa non essere alla mercé del mercato, almeno identitariamente, e salvarsi un centimetro alla volta.

Ciao, come ti chiami, cosa ti piace fare?

Mettere in discussione tutto, persino il lavoro.

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