Culture

Quando l’unica opzione è il mare

Il romanzo di Fabrizio Gatti, Nato sul confine, racconta le storie, inventate ma estremamente realistiche, di chi dalla Siria arriva in Europa alla ricerca di una vita migliore. E perché deve farlo affidandosi alle acque
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
4 giugno 2023 Aggiornato alle 11:00

L’11 ottobre 2013 un peschereccio con quasi 500 persone a bordo si ribaltò mentre cercava di raggiungere l’Europa dalla Libia, costando la vita a 268 persone, tra cui 60 minori. 8 giorni prima il mare aveva inghiottito 386 anime.

La “nave dei bambini” era affondata in acque di competenza maltese, ma più vicino a Lampedusa: per questo, alcuni superstiti avviarono un procedimento legale contro la Guardia Costiera e la Marina Militare italiane, accusandole di omissione di soccorso per non essere intervenute dopo aver ricevuto l’allarme.

È a questo ennesimo, straziante, naufragio che si ispira il romanzo Nato sul confine (Rizzoli, 208p., 16€) di Fabrizo Gatti, ex giornalista investigativo de L’Espresso e già autore di Bilal. Non solo a quelle drammatiche quattro ore e mezzo mezzo alla deriva, in attesa dell’esecuzione di un ordine che poteva essere operativo in “trentasei secondi”, ma soprattutto a quelle vite, di fantasia ma così reali, che a quel peschereccio affondato hanno affidato le loro speranze di un futuro migliore. Per loro stessi, ma soprattutto per i loro figli.

La storia di Zara, farmacista siriana in fuga dalla guerra e dal Mukhabarat, e delle famiglie dei tantissimi medici, così tanti da “poter aprire un ospedale”, che come lei hanno abbandonato le loro case in Siria – portando con sé le chiavi, fino ai confini del mondo, con la promessa di poter tornare – sono raccontate da una voce d’eccezione: il piccolo Mabruk, non ancora venuto alla luce, che dentro al grembo accogliente di sua madre si fa narratore e protagonista. Attraverso la sua voce, piccola eppure potente, scopriamo pagina dopo pagina come si vive “a casa loro”, dove “c’è di peggio della guerra e quel peggio ci sta accadendo”.

E mentre viaggiamo dalla città ribelle di Homs a Aleppo e dalla Siria fino alle coste libiche e poi, ancora, su quel peschereccio “inaffondabile” abbattuto dagli AK-47 dei miliaziani, non possiamo non chiederci “cosa avrei fatto se fosse stato mio figlio?”.

Nella poesia Home, la poetessa keniota Warsan Shire ha scritto che “nessuno mette i suoi figli su una barca a meno che l’acqua non sia più sicura della terra” e nelle pagine di Gatti quel senso di inevitabilità e di mancanza di alternative è palpabile. “Vogliamo solo che sia sano e non nasca in guerra. È l’unico nostro desiderio”, dicono i genitori di Mabruk. Attraversare il mare, a rischio della vita, è l’unico modo.

Sì, perché questo breve ma intenso e toccante romanzo è, soprattutto, la risposta a una di quelle domande crudeli, che su questi genitori in fuga dall’orrore disposti a rischiare tutto e anche di più per salvare i propri figli, vorrebbero aggiungere il peso della colpa, che ritornano ogni volta che il mare si fa cimitero: “ma perché non vengono in aereo?”.

Quella di Zara e dei suoi compagni di viaggio è la storia di medici, professionisti specializzati che magari hanno girato il mondo per studiare e che, fino allo scoppio della guerra, potevano muoversi liberamente. Ma “quando ti scoppia la guerra in casa, diventi un appestato: tutti ti chiudono la porta in faccia, anche se hai i soldi per mantenerti e le capacità, una qualifica universitaria, un mestiere”. Non sei più niente di quello che eri, sei solo un appestato a cui deve essere impedito di varcare la frontiera.

E allora niente più visti, niente più permessi, per impedire a queste persone povere o impoverite di trasferirsi nei Paesi più ricchi. Certo, è possibile chiedere la protezione umanitaria, ma per ottenerla devi raggiungere l’Europa. E, poiché il visto per protezione umanitaria non esiste, l’unico modo per entrare è farlo da clandestini, consegnandosi nelle mani dei criminali per cui quelle vite sono solo numeri, dollari.

Eppure nelle storie raccontate da Gatti non c’è solo paura e disperazione: c’è dignità, solidarietà, amore, libertà, desideri. C’è la vita, in un grido che squarcia la notte e che continua a urlarci nelle orecchie il senso di profonda ingiustizia impossibile da accettare.

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