Diritti

Che cos’è il lavoro per una millennial

In molti casi, un eufemismo di “sfruttamento” perché manca uno stipendio equo e una diversa (e corretta) gestione del tempo. Che consideri la professione solo come un momento della vita
Credit: Cottonbro studio
Tempo di lettura 7 min lettura
15 settembre 2023 Aggiornato alle 06:30

Il lavoro: tutto in nome del lavoro. La parola inviolabile, il +4 finale di questa infausta partita a Uno. Che cosa vuole dire, però, a conti fatti, lavoro? Cos’è effettivamente? A pensarci è molto più difficile da descrivere di quanto suggerisce la frequenza d’uso della parola. È un impiego di energia per ottenere un dato esito.

Il risultato è un elemento che si sdoppia in base a chi legge la parola lavoro; è la produzione di un bene o il conseguimento di un pagamento per il dispendio energetico? Forse si quadruplica, perché nemmeno il bene è così rilevante, non quanto il guadagno prodotto (da reinvestire per produrre altro guadagno).

E poi, a dirla tutta, non è il dispendio energetico a essere retribuito (sennò sai che stipendi da capogiro?) ma la realizzazione del bene/ servizio /atto che darà a chi fa il grosso del guadagno il suo tanto desiderato surplus. Dunque, di cosa parliamo quando facciamo riferimento al lavoro? Di quale chi?

Di lavoro salariato, forse, di lavoro equamente retribuito, raramente, di sfruttamento imbellettato grazie alla parola lavoro, nella maggioranza dei casi. Di Nessuno, sempre. Lavoro diventa la parola neutra, il contenitore che genera referenti assenti; i chi svaniscono, fagocitati dalla parola lavoro. Chi lo realizza, chi lo fa, chi lo soffre, chi ne muore. Una serie di soggetti rimossi, per lasciare che gli occhi siano puntati sul lavoro.

C’è stato un tempo in cui le promesse del capitale sembravano solide. Certo, c’era già chi aveva visto tra le maglie di quelle squisite lusinghe che venivano raccontate, non illudiamoci. E soprattutto, non dimentichiamoci i 300.000 morti tra coloro che nel 1525 si sono ribellati alle enclosures (oltre che all’egemonia religiosa), in quella che viene ricordata come la Guerra dei contadini. Un dissenso popolare fortissimo, la cui memoria è stata dissolta proprio in forza di queste fantasmagoriche promesse di capitale. Promesse che ci sembrano plausibili, facili e familiari.

Non c’è limite alla crescita: possiamo diventare tutti più ricchi, il capitalismo produce benessere per tutti, la proprietà privata è un diritto assoluto, il lavoro viene prodotto dal capitale e, soprattutto, è la nostra miglior opzione. Nel tempo, storici, filosofi, attivisti, storiche, filosofe, attiviste, economiste, economisti, sociologhe e sociologi, si sono alternati nello smentire tutte queste affermazioni. Come se non bastasse, la scienza si è messa seduta, ha osservato la questione da ogni angolazione e ha concluso che no, non solo il capitalismo non è l’unica opzione, ma non è certamente la migliore (intendendo migliore come una parola che contenga almeno l’istinto di sopravvivenza della specie).

Eppure siamo ancora qui. E la difesa del lavoro (e non dei lavoratori) è parte del problema. Siamo intrisi di discorsi di mega super ultra ricchi che difendono il loro diritto alla predazione (il furto di massa che trasforma le risorse collettive in ricchezza di pochi) facendo finta che stia loro a cuore il lavoro delle masse.

Eppure, se oggi l’1% della popolazione mondiale possiede il 60% della ricchezza globale (misurata come Pil) chiaramente qualcosa non quadra. Soprattutto se pensiamo che, nonostante il Pil cresca (con tutti i “grazie” e i “per piacere” delle crisi), 205.25 milioni di persone nel mondo sono ufficialmente disoccupate: un tasso che oscilla, tant’è 2020 si era arrivati ai 235.21 milioni.

Con tutta la ricchezza accumulata sarebbe ampiamente possibile offrire lavoro, ma anche supporti e sostegno a chi lavoro non ha. Non fosse che la ricchezza non è pubblica, ma privata. In aggiunta, il problema di questo dato è che, come al solito, si tratta di una sottostima che non tiene conto della precarietà lavorativa ormai endemica.

Molti di noi galleggiano nella gig economy, nell’economia del lavoro freelance, occasionale e senza assicurazioni di sorta. Il mercato del lavoro brilla con questi meccanismi di assunzione senza costi costanti che non maturano sicurezze (ferie, assenze per malattia etc) e nel frattempo ci imbottisce di false speranze. Non da ultima quella del nomadismo digitale che ci insegna a vivere dislocando i nostri costi e il nostro impatto, predando risorse da Paesi a cui non viene restituito nulla e in cui non viene pagata nessuna tassa oltre a quella di soggiorno. Magari il costo dell’hotel.

Ma non è finita qui: la gig economy, è la punta dell’iceberg, se si pensa al lavoro retribuito sottobanco, illecitamente; ma peggio ancora (e di nuovo) a cosa consideriamo lavoro.

Nella maggior parte dei casi, per la maggior parte di persone, lavoro è un eufemismo per sfruttamento. Dalle pause bagno minutate, alle fabbriche dislocate nel Sud del mondo; dalla scrittura al lavoro operaio: non solo manca una retribuzione veramente equa, ma anche una gestione del tempo e delle mansioni che consideri il lavoro come un momento della vita.

Al contrario il lavoro diventa la vita, la assorbe e la rigurgita come prodotto finito. E anzi, chi lamenta un problema viene zittito (una pratica di “silenziazione” nota come tone policing) e invitato a “ andare a lavorare”.

Il tutto, per tenere in piedi il loop del consumo, un continuo sperpero di risorse economiche, sociali e ambientali così fine a sé stesso da esser difficile da comprendere. Siamo chiusi in una centrifuga, produciamo troppo per consumare persino di più, senza che quel consumo risponda a un bisogno. Nel mentre, la nostra energia viene risucchiata in maniera proporzionale a quella prodotta corrodendo le risorse planetarie.

E infatti, è proprio la presenza del meccanismo di iperproduzione e iperconsumo ad aver modificato l’equilibrio climatico del Pianeta, intervento direttamente sul ciclo idrologico.

Nonostante tutto, però, c’è chi ritiene che tenere in piedi il sistema sia necessario per tutelare il lavoro (non tutelato) delle masse. Sempre quei super ricchi, ma anche chi ambisce a raggiungerli o a emularli. Peccato che, stando ai dati dell’Ilo - International Labour Organization, entro il 2030 verranno persi circa 80 milioni posti di lavoro, da sommare a una perdita di 2,4 trilioni di dollari, come conseguenza della crisi climatica.

Si affaccia al mondo la generazione del sottoproletariato climatico, senza risorse e senza possibilità. Pronta per essere ulteriormente sfruttata. Una massa nella massa globale, che già esiste.

La Banca Mondiale rincara, affermando che, sempre con limite il 2030 e sempre a causa della crisi climatica, ci saranno 130 milioni di poveri in più al mondo. Crisi climatica che, come l’Ipcc - Intergovernmental Panel on Climate Change non si stanca mai di ripetere, è causata dall’attività antropica. Il gruppo intergovernativo rischia persino di risultare sibillino se citato in questo modo molto adatto ai post di X (il fu Twitter).

Attività antropica è generico, fin troppo universale in un sistema la cui crisi in essere è il prodotto di un meccanismo sperequato. La crisi è causata dalle attività antropiche votate alla produzione, anzi, alla super produzione necessaria a creare capitale, da reinvestire per produrre di più e racimolare altri milioni, miliardi, da investire, di nuovo, fino alla fine delle risorse.

Perché una fine c’è, anche se (per quanto sembri folle) il mito della crescita sostiene che si possa produrre all’infinito su un Pianeta finito. Ora si ritiene che saranno i servizi, il digitale, a generare beni immateriali. Peccato che queste strutture necessitino anche loro di risorse fisiche e che all’espandersi del mercato aumenti anche l’estrazione. Il volume di consumo aumenta. E per garantirlo a prezzi competitivi, il lavoro viene ingurgitato dallo sfruttamento. Lavoro che lavoro non è. Che abusa del termine per nascondere tutto dietro la dignità del lavoro stesso.

Di nuovo, cos’è davvero il lavoro? Oggi una scusa buona per prosciugare le persone di quell’energia essenziale alla produzione: la loro vita. Una partita, persa in partenza.

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