Culture

C’è vita oltre il lavoro

In Ma chi me lo fa fare? Mara Gancitano e Andrea Colamedici svelano la realtà nascosta dietro l’incantesimo del lavorismo e ci ricordano perché è ora di dire basta. E perché dobbiamo farlo insieme
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 8 min lettura
9 aprile 2023 Aggiornato alle 15:00

Il lavoro non funziona più. O, meglio, non funziona più quella strana magia che per decenni ci ha illuso che il lavoro ci avrebbe resi liberi e felici, che avrebbe dato un senso alle nostre esistenze terrene ripagandoci degli sforzi sempre più sovrumani – e delle condizioni sempre più disumane – a cui sottoponeva moltissimi e moltissime di noi.

Lo vediamo ogni giorno, nello scricchiolare del perfetto ologramma che ci hanno fatto credere fosse reale, nelle crepe che si aprono e da cui milioni di lavoratori fuggono e lo vediamo, chiarissimamente, nelle pagine di Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo, scritto a quattro mani dai filosofi e fondatori della casa editrice Tlon Andrea Colamedici e Maura Gancitano (Harper Collins, 249 p., 18,5€).

Un libro scorrevolissimo eppure estremamente denso, non solo di dati, studi, teorie economiche ma, soprattutto, di un messaggio: è ora di dire basta. È il momento di guardare in faccia il concetto di lavoro come lo conosciamo oggi e capire che è profondamente sbagliato. Ed è ora di abbatterlo, per rifondarlo.

Il lavoro nobilita chi?

Ci hanno insegnato ad amare il nostro lavoro, a vivere l’azienda come una famiglia (replicandone tutti i tratti disfunzionali), ad avere fede nel lavoro e nella sua religione – il lavorismo – promettendoci che se fossimo stati bravi, che se ci fossimo impegnati davvero, ce l’avremmo fatta. Saremmo diventati ricchi, come professa quel Vangelo della Ricchezza che alla fine del 1800 ha gettato i semi di quello che sarebbe diventato il Neoliberismo: il profitto sopra ogni cosa, anche sopra il lavoro stesso.

Ci hanno fatto credere che fosse “il tempo del lavoro a doversi adattare alle esigenze del mercato, e non il contrario. Oggi il tempo della vita è determinato da quello del lavoro, come il modo in cui stiamo dipende da quanto e come lavoriamo”. Ma non è sempre stato così, ci ricordano Colamedici e Gancitano: quello che crediamo essere il lavoro, in realtà, è solo uno dei modi di concepire il lavoro.

Un modo recente, che a un certo punto della storia si è imposto: secondo Hannah Arendt, infatti, «in un certo momento della storia moderna la considerazione del lavoro è cambiata in modo improvviso e spettacolare, diventando la suprema e più stimata tra le attività umane. Fino a quel momento, al contrario, il lavoro era stato considerato tendenzialmente un’occupazione bassa a cui riservare disprezzo».

Ci hanno fatto credere che non potessimo permetterci molte cose: di oziare, di amare (chi non lavora, non fa l’amore…), persino di riposare. Sì, perché “il sonno rappresenta l’affermazione – irrazionale e scandalosa – che l’umano non sia totalmente compatibile con le forze apparentemente irresistibili della modernizzazione”. Essere (o, meglio, mostrarsi) costantemente impegnati è necessario: sempre indaffarati, sempre più degli altri, una call dopo l’altra, uno straordinario dopo l’altro, un burnout dopo l’altro.

Ci hanno fatto credere che al nostro sogno (o, più spesso, al sogno imprenditoriale di qualcun altro) avremmo dovuto sacrificare tutto: famiglia, figli, amici, quella parte di noi stessi separata dal lavoro, se ancora esiste. Soprattutto, però, ci hanno fatto credere che non ci fossero alternative. E, noi, in preda a una Sindrome di Stoccolma lavorativa, non solo ci abbiamo creduto, ma l’abbiamo fatto con passione.

There is no alternative. O sì?

Uno dei meriti del libro di Colamedici e Gancitano è ricordare che il lavoro è anche, e soprattutto, una questione di classe, pronunciando una parola che sembra quasi tabù e che invece dovremmo rimettere al centro del dibattito. Perché se è sulle enormi disparità di classe che si innestano altre profondissime disuguaglianze, cancellare il concetto di classe rafforza la retorica del “se vuoi puoi”. E se non puoi, è colpa tua che non ti sei impegnato abbastanza.

La verità è che le alternative ci sono – e ci sono sempre state – mentre la teoria neoliberista mostra le sue enormi voragini. L’incantesimo del lavoro ci fa ritenere normale che ci siano pochissime persone che tengono in mano la ricchezza di tutti mentre moltissime e moltissimi non hanno niente: è la speranza di essere il prescelto, il pregiudizio di sopravvivenza che ci fa focalizzare su quell’unica persona che ce la fa invece di guardare a tutti quelli che restano indietro. E che ci fa vivere il suo come merito e quella degli altri come una colpa.

È l’individuo eccezionale, unico, che riesce a passare per una persona della classe superiore, simulandone la disinvoltura arrogante con cui si muove nel mondo (“pensati ricco”, potrebbe il claim). Uno su mille ce la fa. Solo.

Questa atomizzazione dei lavoratori, però, non è casuale, ma funzionale: molte compagnie, infatti, spiegano gli autori, dipingono i sindacati come i dissennatori di Harry Potter perché, semplicemente, le fanno guadagnare meno. Perché “i lavoratori isolati, senza connessioni gli uni tra gli altri, sono arance da strizzare fino alla fine per un’ottima spremuta. […] Al contrario, nel momento in cui creano una rete si sostengono e condividono la propria esperienza, disinnescano un sistema disumanizzante fondato sulla competizione perenne”.

Confucio ci ha mentito

“Scegli il lavoro che ami e non lavorerai neanche un giorno in tutta la tua vita”. Se lo ha detto Confucio sarà vero, no? Non esattamente: come ci ricordano gli autori, la frase non solo non è attribuibile al filosofo cinese, ma la sua prima attestazione è, guarda un po’, decisamente più recente. Risale al 1982 per la precisione. Non è un caso e, del resto, in passato chiedere a qualcuno di amare il proprio lavoro era semplicemente impensabile.

In noi l’idea di dover trasformare una passione in lavoro è così radicata da farci illudere che sia giusto sacrificarsi; del resto, chi non fa sacrifici per amore? Non dovremmo, però, dimenticare che la romanticizzazione del lavoro –nata a partire dal lavoro non retribuito delle casalinghe – è “una trappola capitalista”, per dirla con le parole della sociologa Erin A. Chech. E che, soprattutto, come ci ha ricordato Sarah Jaffe, il lavoro non ricambia il nostro amore.

“Amare il proprio lavoro” è una trappola: non solo – soprattutto nel caso dei lavori di cura, creativi o artistici – è una scusa per pagare poco o non pagare affatto (fai quello che ami e vorresti pure i soldi?), ma ha il duplice vantaggio di far sentire sbagliato chi non è felice e percepisce un senso di attrito. Chi ha smesso, o sta smettendo di credere, all’incantesimo.

Il lavoro è morto, viva il lavoro

Uccidere simbolicamente il lavoro – o, meglio, il lavoro come è concepito oggi – per liberare le potenzialità che ancora ha da offrire è quindi più che un’utopia, è una necessità.

Quello che le piazze francesi ci ricordano a gran voce, come ha spiegato la giornalista Giovanna Botteri ospite di Parole su Rai3 proprio insieme a Maura Gancitano, è che «la vita è una sola e non possiamo permetterci di sprecarla con il lavoro. Perché dobbiamo lavorare così tanto e fino allo stremo? C’è una vita oltre il lavoro. Sono 50 anni che ci ripetono che ‘devi lavorare duro, fare carriera’. Ti dicono che dipendi dal lavoro che fai, dai soldi che ti guadagni e improvvisamente oggi in piazza e nelle strade si sente qualcos’altro, che c’è una vita oltre il lavoro». E che dobbiamo iniziare a lottare per riprendercela.

Come? Iniziando, prima di tutto, dal recuperare il mostruoso che è in noi. A Stay hungry, stay foolish, il mantra jobsiano che ci siamo sentiti ripetere fino alla nausea, Colamedici e Gancitano oppongono Stay hungry, stay goulish, dove goulish fa riferimento a ciò che è mostruoso, spaventoso.

Abbracciare la nostra mostruosità – che spaventa perché “rende evidente che il mondo non finisce laddove si pensava” – senza paura di sfidare le norme sociali.

Per rompere davvero l’illusione del lavoro, però, la strada passa dalla diserzione. “Una diserzione dal lavoro, dal consumo, dalla competizione e dalla performance”. L’invito, chiariscono gli autori, non è a smettere di lavorare da un giorno all’altro, ma a tirarsi indietro, “ovunque possibile, dalle logiche lavoriste che ti spingono a credere che le cose non possano essere che così. […] A domandarti, con tutta la spietatezza e la lucidità di cui disponi ‘Ma chi le lo fa fare?’”.

Cambiare sguardo e prospettiva, insomma, imparando a “pensare divergente, diagonale, di traverso” e leggere anche i fenomeni come la Great Resignaton, il quiet quitting e, più in generale, il diffuso disamoramento nei confronti del lavoro non come problemi ma, anzi, come “frammenti di una possibile soluzione”.

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