Ambiente

Combustibili fossili: una “trappola tossica” per i Paesi poveri

Secondo un rapporto pubblicato da 35 organizzazioni, tra cui ActionAid International, le nazioni meno sviluppate sono costrette a fare affidamento sulle fonti non rinnovabili per pagare i propri debiti
Credit: EPA/LEGNAN KOULA
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
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24 agosto 2023 Aggiornato alle 20:00

Gli attivisti l’hanno definita una “nuova forma di colonialismo”.

Si tratta della dinamica per cui le nazioni più ricche e i finanziatori privati stanno intrappolando i Paesi fortemente indebitati in un ciclo di dipendenza dai combustibili fossili.

La rete Debt Justice, un ente di beneficenza con sede nel Regno Unito fondato nel 1996 che si impegna a porre fine “al debito ingiusto, alla povertà e alla disuguaglianza che esso perpetua”, insieme ai partner dei Paesi colpiti, ha pubblicato un nuovo rapporto in cui chiede ai creditori di cancellare tutti i debiti dei Paesi in crisi, in particolare quelli legati ai progetti sui combustibili fossili.

Lo studio è intitolato La trappola del debito per i combustibili fossili - Perché il debito è un ostacolo all’abbandono dei combustibili fossili e cosa possiamo fare al riguardo e rivela che il debito dei Paesi in via di sviluppo è aumentato del 150% dal 2011, con 54 Paesi ora alle prese con crisi del debito perché devono spendere 5 volte di più per i rimborsi, distogliendo risorse dalla mitigazione della crisi climatica.

Secondo le 35 realtà che hanno pubblicato il rapporto, tra cui ActionAid International e Friends of the Earth International, le crescenti pressioni del debito stanno costringendo le nazioni povere a continuare a investire in progetti legati ai combustibili fossili per ripagare i prestiti concessi perlopiù dai Paesi più ricchi e dalle istituzioni finanziarie. “Tuttavia, le entrate previste sono spesso eccessivamente gonfiate e richiedono ingenti investimenti per raggiungere i rendimenti attesi, portando a ulteriore debito”, spiega il report.

Per Paesi come l’Ecuador, l’Argentina, l’Uganda, il Chad, il Ghana e il Mozambico, incastrati nella trappola “debito-combustibili fossili”, potrebbe risultare “impossibile” eliminare gradualmente le fonti di energia non rinnovabili e passare a quelle rinnovabili.

Tess Woolfenden, senior policy officer di Debt Justice, l’ha definita una «trappola tossica»: molti Paesi «sono imprigionati nello sfruttamento dei combustibili fossili per generare entrate per ripagare il debito mentre, allo stesso tempo, i progetti sui combustibili fossili spesso non generano le entrate previste e possono lasciare i Paesi più indebitati di quando hanno iniziato».

ActionAidUsa ha parlato di un “circolo vizioso” in cui l’attuale crisi del debito è diventata un acceleratore della crisi climatica. Secondo un’analisi pubblicata a giugno dall’organizzazione internazionale indipendente impegnata nella lotta alle cause della povertà il 93% dei Paesi in prima linea nei disastri climatici sta “annegando nel debito”.

Secondo Woolfenden «i Paesi del nord del mondo devono cancellare urgentemente i debiti dei Paesi del sud del mondo per prevenire ulteriori turbolenze climatiche. Uk e Usa dovrebbero inoltre introdurre una legislazione per obbligare i creditori privati ​​a partecipare alla riduzione del debito in modo che non possano più ritardare le trattative per i propri profitti. Non c’è tempo da perdere».

Il Mozambico, per esempio, ha spiegato il coordinatore del programma della campagna ambientalista mozambicana Justiça Ambiental Daniel Ribeiro, è sprofondato in una crisi del debito quando i prezzi del petrolio e del gas sono crollati nel 2014-16.

«Il debito causato dai combustibili fossili è stato strutturato per essere ripagato con i combustibili fossili, solidificando un circolo vizioso di dover andare avanti e avere conseguenze molto gravi nel non voler continuare con i combustibili fossili», mentre le soluzioni adottate dai finanziatori internazionali per salvare il Paese si sono basate sul rimborso dei prestiti attraverso i futuri ricavi del gas.

Anche il Suriname ha affrontato una situazione simile dopo il default del suo debito: Sharda Ganga di Pojekta Suriname ha criticato l’accordo di ristrutturazione del debito sancito nel 2020 con i creditori privati che danno loro il diritto a una parte delle entrate petrolifere del Paese (il 30%) fino al 2050. «Poiché il nostro debito è diventato insostenibile, esso domina tutte le decisioni politiche e ha un impatto sulla vita dei nostri cittadini in ogni modo possibile», ha dichiarato Ganga. «Guadagnare denaro il più rapidamente possibile per ripagare i creditori è quindi la priorità numero uno. Ciò significa che non c’è più spazio per la pazienza e per cose fastidiose come la sostenibilità o la giustizia climatica».

È in questo fenomeno che risiede una «nuova forma di colonialismo: abbiamo scambiato un sovrano con il dominio dei nostri creditori che fondamentalmente possiedono già ciò che è nostro. La differenza è che questa volta l’accordo l’abbiamo firmato noi».

Gli autori del rapporto insistono anche sulla necessità di un maggiore accesso alle sovvenzioni per quei Paesi colpiti maggiormente dai cambiamenti climatici, spesso costretti a indebitarsi ulteriormente per pagare le riparazioni dopo cicloni e inondazioni.

L’analisi rivela come, per esempio, la maggior parte dei 10 miliardi di dollari di assistenza finanziaria forniti al Pakistan dopo le inondazioni dello scorso anno è stata erogata sotto forma di prestiti.

Arthur Larok, segretario generale di ActionAid International, ha dichiarato: «Quando si tratta di soluzioni climatiche, la cancellazione del debito è il risultato più semplice che può frenare l’espansione delle industrie dannose per il clima e liberare finanziamenti tanto necessari nei Paesi vulnerabili».

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