Futuro

Intelligenza artificiale, sfruttamento dei lavoratori reale

Dietro il magico mondo dell’AI c’è una realtà molto meno innovativa: secondo alcune inchieste, nei Paesi in via di sviluppo i dipendenti che ci permettono di godere della tecnologia sono sottopagati e sfruttati
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 6 min lettura
7 aprile 2023 Aggiornato alle 10:00

Per molti di noi AI significa meme sul Papa-rapper, l’infinita lista degli “ho chiesto a ChatGPT di…” e l’ennesimo articolo che ci spiega come l’avvento di questi super-bot cambierà il mondo che abbiamo sempre conosciuto.

Eppure c’è qualcosa, dietro l’intelligenza artificiale, che somiglia fin troppo al mondo che conosciamo bene: lo sfruttamento dei lavoratori che rendono possibile “la magia”.

Quello che dimentichiamo quando utilizziamo il termine “artificiale” è che i modelli di AI devono essere “addestrati” interagendo con una mole enorme di dati. Dati che devono essere raccolti, ordinati, verificati e formattati. Un lavoro enorme in termini di tempo che, spiegano Clément Le Ludec e Maxime Cornet dell’Institut Mines-Télécom di Parigi, per risparmiare viene “esternalizzato dalle società tecnologiche a una miriade di lavoratori precari, solitamente situati nei Paesi in via di sviluppo”.

Quanto vale guardare nell’abisso? In Kenya, 2$, o meno

L’inchiesta del Time, a esempio, ha rivelato con crudele ironia che i lavoratori keniani erano pagati meno di 2 dollari l’ora per garantire che i dati utilizzati per “nutrire” ChatGPT non comportassero contenuti di carattere discriminatorio.

ChatGPT-3, infatti, pur avendo una capacità straordinaria di comporre frasi, produceva spesso osservazioni violente, sessiste e razziste, “perché l’AI era stata addestrata su centinaia di miliardi di parole raschiate da Internet, un vasto archivio di linguaggio umano” pieno di tossicità e pregiudizi. Per arginare questo fenomeno, era necessario fornire all’intelligenza esempi di frasi e termini etichettati come violenza o incitamento all’odio, poiché potesse imparare a riconoscerle. Per ottenere queste etichette, ha spiegato Billy Perrigo sul Time, a partire da novembre 2021 OpenAI ha inviato decine di migliaia di frammenti di testo a una società di outsourcing in Kenya.

“Gran parte di quel testo sembrava essere stato estratto dai recessi più bui di Internet. Alcuni descrivevano con dettagli grafici situazioni come abusi sessuale su minori, bestialità, omicidio, suicidio, tortura, autolesionismo e incesto”.

Il partner keniano di OpenAI era Sama, una società con sede a San Francisco che impiega lavoratori in Kenya, Uganda e India per etichettare i dati per i clienti della Silicon Valley (come Google, Meta e Microsoft), che si presenta come “intelligenza artificiale etica” e afferma di aver contribuito a far uscire più di 50.000 persone dalla povertà.

Peccato che, secondo il Time, che ha esaminato centinaia di pagine di documenti interni di Sama e OpenAI, comprese le buste paga dei lavoratori, e ha intervistato 4 dipendenti di Sama che hanno lavorato al progetto (rimasti anonimi), gli etichettatori di dati impiegati dalla società di San Francisco per conto di OpenAI hanno ricevuto un compenso tra $ 1,32 e $ 2 all’ora a seconda dell’anzianità e delle prestazioni.

Quella dei lavoratori keniani sottopagati per una mansione estremamente provante e spesso fonte di veri e propri traumi psichici, è una storia che permette di aprire una breccia sulle condizioni dei lavoratori in un settore poco conosciuto (e prevedibilmente poco evidenziato) del settore dell’AI, che è però essenziale per rendere i sistemi di intelligenza artificiale sicuri per il grande pubblico.

“Nonostante il ruolo fondamentale svolto da questi professionisti dell’arricchimento dei dati, un numero crescente di ricerche rivela le condizioni di lavoro precarie che questi lavoratori devono affrontare”, ha spiegato al Time Partnership on AI, una coalizione di organizzazioni di intelligenza artificiale a cui appartiene OpenAI. “Questo potrebbe essere il risultato degli sforzi per nascondere la dipendenza dell’AI da questa grande forza lavoro quando si celebrano i guadagni di efficienza della tecnologia. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.

Intelligenza artificiale, eredità coloniale

L’indagine di Le Ludec e Cornet, condotta tra Parigi e la capitale del Madagascar Antanarivo, ha come obiettivo svelare l’identità di questi lavoratori dei dati del settore dell’AI francese, i loro ruoli e le loro condizioni di lavoro, e proporre modi per arricchire le discussioni sulla regolamentazione dei sistemi di intelligenza artificiale.

“Da un lato, le aziende tecnologiche francesi si affidano ai servizi Gafam (un termine collettivo che indica le grandi aziende tecnologiche come Alphabet - Google, Amazon, Apple, Meta Platforms e Microsoft, ndr) per accedere ai servizi di hosting dei dati e alla potenza di calcolo - spiegano i ricercatori - Le attività relative ai dati, invece, sono svolte da lavoratori ubicati nelle ex colonie francesi, in particolare in Madagascar, a conferma della già vecchia logica in tema di filiere di outsourcing”.

I dati di un questionario sottoposto a 296 lavoratori dei dati in Madagascar rivelano che questo settore impiega principalmente uomini (68%), giovani (l’87% ha meno di 34 anni), urbani e istruiti (il 75% ha completato l’istruzione superiore).

Guadagnano per lo più tra i 96 e i 126 euro al mese, con notevoli differenze salariali e compensi fino a 8-10 volte superiori per le posizioni di capo squadra (occupate anche da lavoratori locali). Questi lavoratori, spiegano i ricercatori, si trovano alla fine di una lunga catena di esternalizzazione, il che spiega in parte i salari bassi (anche per il contesto malgascio) di lavoratori qualificati.

Queste aziende, spiega l’indagine, approfittano dei legami postcoloniali, beneficiando di un regime specifico: si tratta delle cosiddette “zone franche”, istituite nel 1989 per il settore tessile in Madagascar ma presenti in molti Paesi in via di sviluppo, aree che facilitano l’insediamento degli investitori attraverso esenzioni fiscali e aliquote fiscali molto basse.

Gli effetti sono ben visibili: delle 48 società che offrono servizi digitali nelle zone franche, solo 9 sono gestite da malgasci, contro le 26 di proprietà francese. Non solo: “oltre a queste imprese formali - spiegano Le Ludec e Cornet - il settore si è sviluppato attorno a un meccanismo di ‘subappalto a cascata’, con, alla fine della catena, imprese informali e singoli imprenditori, che sono trattati meno bene che nelle imprese formali, e mobilitati nel caso di carenza di manodopera da parte delle aziende del settore”.

Per le aziende francesi, questo è un doppio vantaggio: oltre al costo più basso del lavoro, possono contare su personale qualificato, che spesso è andato all’università e parla correttamente francese (imparato a scuola o grazie alle reti dell’Alliance françaises, creata nel 1883 per rafforzare il controllo sulle colonie attraverso l’utilizzo della lingua dei colonizzatori da parte dei colonizzati).

Uno schema che ricorda quello che il ricercatore Jan Padios chiama “richiamo coloniale”: le ex colonie hanno competenze linguistiche e vicinanza culturale con i Paesi che comandano, di cui a beneficiare sono le società di servizi.

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