Futuro

Vogliamo ancora la luna

Christina Koch è l’ingegnera che volerà sulla Artemis II: che ispirazione per le bambine che la seguiranno. Anche perché la Nasa non è che sia sempre stata questo modello da seguire. Ti dice niente 100 tampons?
Sally Ride, la prima donna statunitense nello spazio
Sally Ride, la prima donna statunitense nello spazio Credit: Nasa
Ella Marciello
Ella Marciello direttrice comunicazione
Tempo di lettura 7 min lettura
5 aprile 2023 Aggiornato alle 06:30

Artemis II è il nome della missione spaziale Nasa che manderà tre astronauti e un’astronauta verso la Luna. I prescelti sono stati presentati lunedì, in un evento scenografico, raggiunto da una telefonata del Presidente Biden, che ha sottolineato l’importanza epocale della missione messa in piedi dagli Usa e dai suoi alleati nello spazio: Canada, Europa, Giappone.

«L’equipaggio di Artemis II rappresenta migliaia di persone che lavorano instancabilmente per portarci fino alle stelle. Questo è l’equipaggio che rappresenta tutta l’umanità - ha dichiarato l’amministratore della Nasa Bill Nelson - Questi astronauti hanno ognuno la loro storia, e rappresentano il nostro credo: E pluribus unum. Insieme, stiamo inaugurando una nuova era di esplorazione per una nuova generazione di navigatori stellari e sognatori: la Generazione Artemis».

Se come me hai passato gli ultimi anni nutrendoti di reel, TikTok e contenuti sui social media, probabilmente non ti sarà sfuggito un pezzo di stand up comedy di Marcia Belsky intitolato 100 tampons. Ammetto, è uno dei miei pezzi preferiti perché riesce a essere esilarante nel suo lasciarti un retrogusto grottesco, che poi è ciò che personalmente trovo intelligente nei pezzi umoristici.

Il testo fa più o meno così:

Ricordi quando la Nasa ha mandato una donna nello spazio,

per soli 6 giorni,

E le hanno dato 100 assorbenti?

Sì. È successo sul serio.

La storia a cui fa riferimento Marcia Belsky è avvenuta nel 1983, anno in cui la Nasa ha inviato la prima donna statunitense nello spazio, Sally Ride, equipaggiandola SUL SERIO con 100 tamponi. Per una spedizione di 1 settimana.

Gli ingegneri volevano “essere sicuri”. In effetti ci fu questa conversazione con Ride, in cui le venne chiesto se quei 100 tamponi fossero il numero giusto e in cui le rispose: «non è il numero giusto».

Al di là dell’ilarità di domande come queste e della sovrabbondanza di prodotti per l’igiene mestruale (circa una settantina di tamponi di troppo, in effetti) è tragicomico il pensiero che le menti più brillanti di una Nazione non avessero la benché minima nozione della biologia di base di un corpo che non fosse standard.

Ride aveva un corpo standard, un corpo allenato e preparato alle difficili sfide che le missioni spaziali pongono al corpo umano. Però, non era proprio standard-standard. Perché era il corpo di una donna, qualcosa sentito come devianza dallo standard stesso.

E sì, le donne che hanno le mestruazioni costituivano una grande motivo di preoccupazione per i responsabili delle missioni spaziali. Perché il corpo che mestrua obbedisce differentemente alla minore forza di gravità? Perché il sangue deve esser smaltito in modo separato da altri rifiuti organici? No.

Perché gli ingegneri erano preoccupati dallo stato mentale di Ride, considerato “troppo emotivo” per poter operare in una stazione spaziale. Chiaramente ogni astronauta viene sottoposto a stringenti test psicofisici prima di esser lanciato in orbita ma il pregiudizio sembra(va) essere ancora incredibilmente forte. Forse i 100 tamponi potevano mitigare questo eccesso di emotività?

La storia, vera, è che Ride anche al suo ritorno sulla Terra fu costretta a affrontare le domande dei media che erano particolarmente interessati a sapere «se piangeva quando era sotto pressione» o «se il volo aveva influenzato i suoi organi riproduttivi».

Il punto, come sempre, non sono tanto le domande poco pertinenti o le conclusioni fantasiose che vengono fatte in relazione alle professionalità femminili ma la mancanza di rappresentazione adeguata, in particolare nell’ambito delle Stem. Perché se alcuni degli scienziati più importanti e titolati di un Paese avanzato come gli Usa non sono a conoscenza di ciò che accade nel corpo di una persona con le mestruazioni, di quale prova più ficcante abbiamo bisogno per mettere persone con le mestruazioni nei posti in cui queste decisioni vengono prese?

Sembra banale o sembra un’esagerazione? Ripensiamoci alla luce di 100 tamponi. 100 tamponi per 6 giorni.

Per coloro che invece si stanno già alzando in piedi al grido di “bisogna contestualizzare!” allora contestualizzo. La spedizione ebbe luogo nel 1983, come dicevamo, in un momento in cui il gender balance era ancora lontanissimo dai radar. Bene. Nonostante il 1983 ci sembra temporalmente un’era geologica, erano comunque già disponibili diverse informazioni riguardo la durata del ciclo mestruale.

I bambini nascevano, esistevano le ecografie e la ginecologia era una scienza affermata. A scuola si studiava biologia, magari non educazione all’affettività, ma nei programmi scolastici era presente il funzionamento del corpo umano maschile e femminile. Una qualsiasi studentessa delle medie aveva probabilmente già le mestruazioni e uno studente avrebbe imparato in classe la durata del ciclo mestruale che, per inciso, è di 28 giorni in media. La durata del sanguinamento va dai 2 agli 8 giorni in media. Durante questo periodo e a seconda del flusso personale, si consiglia di cambiare un tampone ogni 4 - 8 ore. Perciò, secondo un semplicissimo calcolo matematico, una persona che mestrua avrà bisogno di una quarantina di tamponi. A Sally Ride ne furono dati un numero sufficiente per un viaggio di circa 3 mesi.

Beh sì, era il 1983, no? Bisognava essere sicuri sicurissimi. Che so, magari chiedendo a una donna?

Ma ho un’altra storia. Negli anni ‘60 William Randolph Lovelace II, specializzato in medicina aerospaziale, condusse il primo studio relativo agli effetti dei viaggi spaziali sulle donne. Mentre la Nasa preparava i suoi astronauti maschi per il primo viaggio nello spazio, Lovelace eseguiva test su un gruppo di donne nella sua clinica privata perché riteneva che potessero essere candidate migliori per i viaggi nello spazio poiché sono “più piccole e più leggere” degli uomini e avrebbero consumato meno ossigeno.

Tuttavia, prima di stappare champagne e celebrare la ricerca pionieristica di Lovelace, dovremmo sapere che a quanto pare aveva ben altre intenzioni. Il suo ragionamento era che le stazioni spaziali in orbita richiedessero molto lavoro e gli astronauti maschi sarebbero stati ovviamente occupati con compiti più importanti. Per questo, avevano bisogno di donne che si occupassero di alcuni lavori di livello inferiore come rispondere ai telefoni e assistere nei laboratori; insomma: bisognava dotare i boss dello spazio di segretarie. Spaziali, eh. Ma sempre segretarie.

Le donne che hanno preso parte ai test hanno perseverato. 13 partecipanti su 19 hanno superato i rigorosi esami fisici di Lovelace, e alcune di loro sono poi volate a Washington, DC per prendere parte a udienze pubbliche davanti a una sottocommissione speciale della commissione della Camera per la scienza e l’astronautica, al fine di consentire alle donne astronaute di andare nello spazio. Tuttavia, i rappresentanti della Nasa hanno sostenuto che le donne non potevano qualificarsi come astronaute, secondo quanto si legge nei registri dell’agenzia governativa.

La prima classe di astronaute donne degli Stati Uniti non è arrivata fino a più di un decennio dopo, e ci è voluto ancora più tempo prima che una di loro andasse effettivamente nello spazio. Ricordiamolo: con 100 tamponi per 6 giorni.

Ritorniamo ancora un attimo su Ride, però, perché la sua storia ha un antefatto fantasmagorico. Nel 1978, quindi 5 anni prima del fattaccio degli assorbenti, nel tentativo di accogliere al meglio la nuova classe di astronaute, gli ingegneri della Nasa progettarono un kit completo per il trucco. Gli astronauti, generalmente, ricevevano un kit per l’igiene personale che includeva dentifricio, deodorante, sapone e un pettine.

Prendiamoci tutto il tempo che occorre per metabolizzare questa cosa e valutare in serenità quali possano essere le priorità di chi decide cosa sia necessario portare nello spazio, per quanto tempo e perché. Di chi decide sui corpi che non conosce e non ritiene opportuno conoscere. Di chi decide in nome di qualcun’altra.

Artemis II, come annunciato, avrà una crew composta da 3 uomini e 1 donna. Quella donna, Christina Hammock Koch, è l’unica ingegnera professionista a bordo e sarà la prima donna in una missione orbitante attorno al nostro satellite. Potrà sembrare un piccolissimo passo per la Nasa ma a me sembra un gigantesco passo per le bambine che la guarderanno da quaggiù.

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