Diritti

Mestruazioni: le parole per NON dirlo

Un cortometraggio ha riassunto gli eufemismi usati in tutto il mondo. Il messaggio è chiaro: per rompere il tabù, cominciamo a chiamarle con il loro nome
Credit: Erol Ahmed/unsplash
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
15 dicembre 2022 Aggiornato alle 09:00

«Gli inglesi sono sbarcati». «La settimana dei mirtilli rossi». «Sono arrivati i pittori». «La zia Flo è in città». Forse non ci crederai, ma tutte le frasi che hai appena letto hanno lo stesso significato. Impossibile? Non per le donne, che in tutto il mondo utilizzano ogni mese queste espressioni – o alcune molto simili o altrettanto curiose – per non dire, semplicemente, che hanno le mestruazioni.

In Italia diciamo “ho le mie cose”, ma ogni Paese ha i suoi eufemismi per riferirsi a quello che è ancora un enorme tabù: sono oltre 5.000, spiega Dunja Kokotović, Global Brand Manager di Intimina, che per far luce sugli effetti sommersi di quelli che sembrano innocui modi di dire ma che invece sono gabbie che imprigionano donne e ragazze ha creato End Period Euphemisms, un cortometraggio in cui persone provenienti da tutto il mondo incarnano gli eufemismi legati alle mestruazioni.

L’obiettivo è semplice, eppure ancora oggi potrebbe avere un effetto dirompente: chiamare le mestruazioni semplicemente con il loro nome. Le parole che usiamo, infatti, non sono semplicemente parole, ma hanno il potere di cambiare il modo in cui viviamo il ciclo – e il particolare il sangue – mestruale, condannandolo o liberandolo dall’essere una questione di cui vergognarsi.

“Molti di questi eufemismi hanno connotazioni piuttosto negative derivanti dall’ideologia patriarcale che associa le mestruazioni alla vergogna della propria sessualità. L’uso continuato di certi eufemismi” – spiega Alessandra Bitelli, Woman Empowering Coach – “fa sì che, ancora oggi, alcune ragazze si sentano in imbarazzo a parlare apertamente delle mestruazioni, inibendo la richiesta di aiuto in caso dell’emergere di qualche difficoltà. In realtà non ci si dovrebbe vergognare nell’usare il termine “mestruazioni” esattamente come non ci si vergona a dire che si ha il raffreddore. Il disagio è puramente culturale e con la cultura può essere superato”.

Per alcune persone nascondere le mestruazioni è una questione di “pudore”, eppure dietro il “period stigma” c’è molto di più. Ci sono secoli di repressione e pregiudizi che associano le mestruazioni alla vergogna e spingono – oggi come un tempo – le donne a dover (quando va bene) nascondere gli assorbenti nella manica perché non sia mai che qualcuno sappia.

Le conseguenze possono sembrare banali, ma non lo sono: è nello stigma e nella vergogna, infatti, che affondano le radici tantissime ingiustizie che colpiscono donne e ragazze in ogni parte del mondo.

Pensiamo alla period poverty, che impedisce alle fasce più deboli di accedere ai prodotti per l’igiene mestruale arrivando fino alle conseguenze estreme di bambine e ragazze che arrivano a perdere fino a 3 mesi di scuola ogni anno.

O alle toilette pubbliche (spesso disegnate da uomini) che non sono pensate per “quel periodo del mese”, un altro eufemismo dietro cui nascondiamo un’immagine che accomuna 1,8 miliardi di persone che mestruano ogni mese, secondo i dati Unicef.

O, ancora, a tutte quelle ragazze che sono escluse ogni mese dalla vita sociale – con tutte le conseguenze che questo comporta – perché “impure”.

Tutto questo inizia e finisce nella vergogna. E il primo passo per uscirne è semplice quanto difficilissimo: smettere di vergognarci e non aver paura di dirlo. ME-STRUA-ZIO-NI.

Sembra facile, ma anche per le donne “forti ed emancipate” quella parola sembra sempre incepparsi sulla punta della lingua. Per questo ci nascondiamo: il ciclo, il marchese, il barone rosso, le regole, le rosse, “sono indisposta”, le malefiche… solo l’italiano ha un’infinità di modi per non dire quello che non si può dire, pena… ma cos’è che rischiamo, poi?

Se allarghiamo lo sguardo oltreconfine, le cose non vanno meglio. Per i francesi, che ancora non si sono ripresi dalla battaglia di Waterloo, “gli inglesi sono sbarcati”, in riferimento al colore delle uniformi militari britanniche. I tedeschi si nascondono dietro “la settimana delle fragole”, mentre gli svedesi hanno quella dei “mirtilli rossi”. Nel Regno Unito “arrivano i pittori”, negli Stati Uniti la “zia flo”, mentre altri paesi angolofoni preferiscono metafore marittime, da “surfare l’onda cremisi” alla “settimana degli squali”.

A sentirli tutti insieme fanno sorridere. Eppure, non c’è niente da ridere. Ricordiamocelo, la prossima volta che abbiamo la tentazione di usare un giro di parole o quando sentiamo risuonare uno di questi stereotipi. Il cambiamento parte da noi, da come ci raccontiamo. Se non lo facciamo noi, chi?

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