Culture

Immigrazione, Io capitano: storia di orrori e umanità

Il film, che segue l’impresa di Seydou e Moussa alla volta dell’Europa, rivela al pubblico cosa c’è nell’anima e nel cuore dei migranti. Per «guardarli non come numeri, ma persone», spiega il regista Garrone
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14 settembre 2023 Aggiornato alle 20:00

Io capitano è un film straordinario. Con il potere della settima arte si infila nel dramma delle migrazioni e degli spaventosi viaggi che le caratterizzano e arriva giù in fondo fino all’abiezione, all’orrore, alla degradazione ultima del genere umano, alla violenza, a volte perfino senza neanche il senso del lucro, riuscendo a riemergerne splendente, tenero, emozionante.

Il Leone d’argento a Garrone per la regia e il Mastroianni al giovane protagonista senegalese Seydou Sarr, miglior attore emergente, oltre a una serie di premi minori, concludono un percorso trionfale cominciato con la poderosa standing ovation (circa 13 minuti), corredata di balli sui ritmi africani di gran parte del pubblico mentre scorrevano i credits, che ha salutato la fine della prima proiezione, il 6 settembre pomeriggio in Sala Grande a Venezia. Il Festival ha così subìto una scossa potente, vera, un terremoto poetico che ha fatto sussurrare a molti “capolavoro”.

Il film di Matteo Garrone è innanzitutto una magnifica storia di amicizia, quella di 2 quindicenni che decidono di lasciare il Senegal per realizzare i loro sogni e arrivare un giorno a farsi “chiedere autografi dai bianchi”. Come in Gomorra, Garrone porta lo spettatore dentro gli inferni quotidiani (quelli di Scampia o quello dei viaggi in mano a trafficanti spietati) trasformando l’orrore per mezzo della tenerezza.

E così, si entra in un’avventura di giovanissimi ingenui e sognatori sempre abbracciati, sorretti solo dalla loro amicizia, dalla certezza del legame indissolubile e da una commovente umanità anche in contesti dove è morta e sepolta. In una scena Seydou, in pieno deserto, vede cadere esangue una povera donna tra la sabbia con il sole allo Zenith e torna indietro. Le parla, la prende tra le braccia, le offre da bere dalla sua tanica, poi arriva Moussa il suo amico-cugino che gli ricorda che se perderanno la vista della guida, moriranno di certo anche loro e Seydou la lascia. La donna muore mentre il ragazzo la accarezza, esala l’ultimo respiro osservando un viso buono in un trionfo tragico di umanità.

Ma Io Capitano è anche un atto politico. Un grido disperato potentissimo perché l’arte arriva, convince, cambia molto più della cronaca. Nell’affrontare con toni poetici e romantici il drammatico fenomeno di migranti, in gran parte giovanissimi se non minorenni, costretti, se vogliono semplicemente partire, ad affidarsi ai trafficanti, Garrone sembra dire: “Basta. È mai possibile che si debba pagare malviventi fior di quattrini, subire ripetutamente violenze, privazioni, umiliazioni, rischiare di morire e morire, al semplice scopo di migrare?”

Io Capitano, tra i tanti, ha quindi un pregio narrativo del fenomeno delle migrazioni verso l’Europa. Con il linguaggio dell’arte fa emergere cosa c’è dentro un corpo, un’anima, un cuore di un migrante che riesce ad approdare (miracolosamente) nel vecchio continente. Ma anche cosa c’è dietro: affetti, rapporti, desideri, sogni, situazioni talvolta impossibili, povertà, guerre.

Chi tenta l’affondo alla fortezza Europa, ormai, dall’Africa, il Medio Oriente o l’Asia ha una sola opzione: affidarsi ai trafficanti. Pagare somme esorbitanti, venire torturato, violato, umiliato e, soprattutto, morire, non solo in mare ma nel deserto, nelle prigioni ciadiane, sudanesi o libiche, al confine tra Iran e Turchia, tra Bielorussia e Polonia (da non perdere, a proposito di quest’ultimo confine e dei fenomeni annessi, Green Border, Premio speciale della giuria a Venezia, della regista polacca Agneszka Holland).

E questo perché non esiste un dibattito normale, rigoroso, pacato sul fenomeno migrazioni, travolti come siamo da chi soffia sul fuoco di improbabili invasioni mai realizzatesi (anche perché l’80% delle migrazioni dall’Africa sono interne) o convinti che chiudersi a riccio erigendo muri e fili spinati, picchiando, respingendo e, quindi, gettando decine di migliaia di persone nelle mani delle mafie transnazionali che gestiscono il traffico, ci metta al sicuro.

Basterebbe cominciare a ragionare, come ha detto Mamadou Kouassi, uno degli ispiratori del film, che Garrone ha chiamato sul palco accanto a sé al momento della premiazione, sugli “accessi legali”: chiunque di noi europei può viaggiare ovunque su aerei o altri mezzi, esibendo il proprio documento previo, al massimo, un visto. Chi viene dall’Africa, dall’Asia o dal Sud del mondo, ha de facto come unico tour operator, i trafficanti.

«Abbiamo cercato di dare forme e ricostruire un percorso che non si conosce attraverso le immagini, quasi in soggettiva, ma dal loro punto di vista - ha dichiarato Matteo Garrone in un video nel corso di Capitani Coraggiosi, side-event sul film organizzato dai Coordinamenti Nazionali Comunità per Minori e Comunità di Accoglienza (Cncm e Cnca), ospitato a Venezia il 7 settembre da The Human Safety Net nella splendida cornice delle Procuratie Vecchie - È stato come fare un controcampo, mettere la macchina da presa dall’altra parte e guardarli non come siamo abituati a vederli, dall’Europa all’Africa. Guardarli non come numeri ma persone».

L’assurdità della gestione del fenomeno migratorio in Italia e in Europa è simboleggiata alla perfezione dalla vicenda di Fofana Amara, un altro giovane la cui storia ha fatto da base ispiratrice al film di Garrone, un caso a metà tra kafka e banalità del male. «Sono partito dalla Guinea a soli 14 anni – ha spiegato il giovane, ora 24enne, durante il side event in collegamento da Liegi, dove vive e lavora – In Libia avevo finito i soldi e i trafficanti mi hanno detto: “Se vuoi partire devi guidare il barcone”. Io non sapevo neanche nuotare ed ero terrorizzato ma non avevo scelta, mi hanno anche minacciato con le armi. Alla fine mi sono messo al timone di una barca carica zeppa di 250 persone. Quando siamo arrivati miracolosamente in Sicilia ero felice e ho gridato “Io capitano”». Ed è stato immediatamente arrestato come scafista.

Da decenni in Italia e in Europa si persegue una strategia di criminalizzazione dei migranti che non rispetta età, diritti, sesso, provenienze. Così facendo si azzera l’umanità e ci si rifugia nell’illusione che, chiudendo tutto, si risolvano i problemi; che arrestando presunti scafisti (molti giovanissimi o addirittura minorenni) si colpiscano i traffici di esseri umani e si limiti l’immigrazione clandestina.

«Siamo estremamente grati a Matteo Garrone per aver affrontato con tale artisticità e maestria queste importanti tematiche – ha concluso Gianni Fulvi del Cncm - I minori stranieri che ci troviamo a ospitare nelle nostre comunità di accoglienza provengono da queste storie, è importante saperlo. Speriamo nel successo assoluto di questo film e che si possa aprire un serio dibattito perché si metta fine a questo ciclo infinto di sofferenza e si cominci a parlare normalmente e ragionevolmente di migrazioni».

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