Ambiente

Climate mobilities: non solo migrazioni climatiche

Ti raccontiamo perché il concetto di migrazioni climatiche non basta a fotografare la complessità di un fenomeno plurale e multicausale
Credit: Unicef.org
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6 settembre 2023 Aggiornato alle 16:00

La scienza non ha dubbi: i cambiamenti climatici sono già, e continueranno a essere in futuro, un fattore determinante nella trasformazione dei flussi migratori.

Nel 1990 l’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) aveva già constatato, nel suo primissimo report, come l’impatto maggiore del riscaldamento globale sui sistemi socioeconomici potesse tradursi proprio nell’intensificazione della mobilità umana, con milioni di persone vessate da condizioni climatiche ostili e minacciose per la sopravvivenza costrette a migrare.

Convenzionalmente, l’espressione “migrazioni climatiche” è oggi utilizzata come termine ombrello per racchiudere tutte quelle manifestazioni di movimento umano riconducibili a fenomeni climatici, quali a esempio degradazione degli ecosistemi, temperature elevate o eventi meteorologici estremi.

Ciononostante, la realtà è molto più sfaccettata di quanto possa sembrare fermandosi a un’analisi di superficie.

Ciò che rende quello delle migrazioni climatiche un fenomeno estremamente complesso da trattare è la sua natura multi-causale. Dal momento che fattori sociali, politici, economici e demografici, oltreché ambientali, possono co-esistere ed essere parimenti determinanti nella decisione finale di migrare o meno, empiricamente non è quasi mai possibile stabilire con certezza un nesso di causalità esclusiva tra clima e mobilità.

Va da sé che un tale livello di complessità richiede una maggiore puntualità e precisione per quanto concerne la questione terminologica. Ed è qui che rileva l’uso smodato dell’etichetta “migrazioni climatiche”, che per quanto funzionale nel comunicare a un pubblico generalista, fallisce nel catturare i diversi modi in cui le popolazioni diventano o no mobili in risposta a un clima che cambia.

Il carattere multi-causale delle migrazioni climatiche implica necessariamente la presenza di uno spettro vasto e variegato. Di una pluralità tuttavia invisibile in quanto oscurata dall’abuso di definizioni monolitiche e restrittive, che finiscono per alimentare pregiudizi e rafforzare bias cognitivi.

Contrariamente a quanto si è portati a pensare, per esempio, la maggior parte delle migrazioni scatenate (anche) da fattori ambientali e climatiche sono interne, e non internazionali, avvengono cioè dentro i confini nazionali e perlopiù per distanze brevi.

Ancora, non tutte le migrazioni sono permanenti, ma anzi hanno di frequente carattere stagionale e circolare. Ne sono un esempio i migranti africani del Sahel che si spostano verso la costa occidentale del continente per unirsi ai pescherecci nei mesi di maggiore attività, per poi fare ritorno dalle proprie famiglie.

Un altro elemento sottovalutato e spesso frainteso riguarda la capacità (economica e sociale), nonché la volontà personale stessa, di intraprendere viaggi pericolosi, che richiedono un cospicuo dispiego di risorse e denotano l’allontanamento dai propri familiari e dalla propria terra d’origine.

A tal proposito, se da un lato il cambiamento climatico finisce, in determinate circostanze, per compromettere la disponibilità di viveri e risorse fondamentali per migrare, contribuendo de facto all’immobilità di quelle comunità che in letteratura vengono denominate trapped populations, dall’altro le sue possibili conseguenze non sono ritenute abbastanza minacciose da chi, sebbene di fronte a rischi significativi, si rifiuta di abbandonare la propria casa.

Per catturare questa diversità multiforme, esperti di migrazioni ambientali suggeriscono alla comunità scientifica e ai ricercatori di adoperare l’espressione climate mobilities e abbandonare quella di climate migration, attualmente imperante (Boas et. all., 2019).

Questa terminologia alternativa consentirebbe, secondo gli esperti, non solo di adottare un approccio olistico e multidisciplinare alla materia, ma anche di trattare questo fenomeno in modo più analitico, svincolandosi da assunti fuorvianti e narrazioni allarmiste contornate da toni apocalittici, che finiscono spesso per descrivere le migrazioni ambientali come una minaccia esistenziale alla stabilità quale stabilità? – del sistema geopolitico internazionale.

Avendo acquisito la consapevolezza che le migrazioni ambientali possono essere interne o internazionali, volontarie o involontarie, nonché essere indotte da fenomeni climatici ben distinti, è comunque possibile operare un tentativo di classificazione di tali spostamenti.

Secondo la letteratura scientifica, tre sarebbero le forme più diffuse e osservate di climate mobilities: le migrazioni, gli sfollamenti (in inglese, climate displacements), e le rilocazioni pianificate dallo Stato (in inglese, planned relocations).

Le migrazioni climatiche sono solitamente associate a movimenti volontari, interni o internazionali, che si verificano in aree geografiche interessate dai cosiddetti slow-onset events, vale a dire tutti quei fenomeni che non comportano un rischio immediato ma le cui conseguenze si espleteranno nel medio-lungo periodo. Ne sono un chiaro esempio desertificazione, deforestazione, perdita di biodiversità e innalzamento del livello dei mari.

I casi di climate displacements riguardano invece fenomeni di evacuazione e migrazioni forzate (nel senso di indotte da cause di forza maggiore), e sono una diretta conseguenza di eventi meteorologici estremi, conosciuti come sudden-onset events (uragani, alluvioni, incendi), i quali compromettono in maniera talvolta irreversibile la vivibilità dell’ecosistema interessato dalla catastrofe naturale.

Ancora più interessanti sono le planned relocations, definite come processi governativo di rilocazione, su base volontaria, di tutte quelle popolazioni che fanno fronte a condizioni climatiche potenzialmente minacciose per la propria sopravvivenza. Si tratta di una precisa strategia di adattamento al cambiamento climatico pensata e sperimentata per la prima volta nelle isole Fiji, dove le abitazioni di diverse comunità costiere quotidianamente esposte a inondazioni sono state ricostruite in aree più sicure, lontane cioè dal mare o dalle foci dei fiumi.

Fare informazione su un tema tanto sensibile e attuale come quello delle rotte climatiche richiede uno sforzo intellettuale notevole ma necessario: accettare la complessità e rinunciare alla tentazione di nutrire i lettori di sensazionalismi e accontentarsi di generalizzazioni riduttive.

Intere comunità si stanno già spostando, altre vorrebbero ma non possono farlo. Altre si sposteranno in futuro. Alcune approderanno sulle nostre coste, la maggior parte migrerà internamente, perché impossibilitate o restie a intraprendere viaggi più lunghi, costosi e spesso fatali. Altre non migreranno mai, noncuranti dei rischi tale il livello di attaccamento materno alla propria cultura e alla loro terra d’origine.

Ognuna di queste storie merita di essere raccontata con dignità, scegliendo le parole giuste.

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