Ambiente

Peste suina: chi pensa ai maiali?

Nel Pavese è scoppiato un focolaio di African swine fever ed è scattata la sentenza per l’abbattimento. Ma pochi si sono interrogati sul vero motivo da cui è nato tutto: gli allevamenti
Credit: Cottonbro studio
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8 settembre 2023 Aggiornato alle 08:12

È una questione di soldi. Si capisce dalla tempestività. Dopotutto, il nostro è il Paese dei lavori malfatti e delle crisi abbandonate a sé stesse. Quindi, quando la mobilitazione è tempestiva, strutturata e decretata è chiaramente una questione di soldi.

Forse, l’indizio più sincero e incontrovertibile è la velocità con cui la burocrazia si snellisce. Una purezza d’azione che per terremoti o inondazioni non si può nemmeno ipotizzare e che, però, quando si tratta di proteggere un settore redditizio scivola liscia come olio su grasso.

L’allarme arriva dal rifugio antispecista Cuori Liberi, uno spazio in cui animali non umani di diverse specie conducono una vita al riparo dallo sfruttamento. C’è la Peste Suina Africana (in inglese nota con il meno terrificante equivalente di African swine fever). 3 maiali sono deceduti a causa del virus. Lo conferma l’autopsia post mortem. E mentre il rifugio piange i suoi morti e teme per i vivi, Ats Lombardia emette l’ordinanza e scatta la sentenza di abbattimento. La motivazione ufficiale è impedire la diffusione del virus, soprattutto qui, con la concentrazione di allevamenti intensivi.

La Psa è un pericolo per la salute dei suini, certamente, ma più di tutto lo è per la realizzazione di prodotti derivati dalla loro morte. E per assurdo, tutelare animali condannati a morte programmata da un foglio produttivo è più urgente che proteggere animali non umani liberi. Un’urgenza che si propaga non solo nell’ordinanza, ma anche nella scelta di ignorare il ricorso organizzato da Lav e da Cuori Liberi.

E di farlo a mezzo di esercito. Questa la dichiarazione di Marco Farioli Dirigente Unità Organizzativa Veterinaria della Regione Lombardia. Se si farà resistenza, se chi abita il rifugio si rifiuterà di consentire l’abbattimento tempestivo degli animali, se attiviste e attivisti chiederanno quantomeno di rispettare i tempi del ricorso, a quanto pare, si potrebbe attivare addirittura l’esercito.

Nel mentre, la zona è diventata un cimitero a cielo aperto. Almeno 10.000 animali sono stati gassati in specifiche camere adibite al loro abbattimento e per garantire la velocità delle procedure; la notte è stata “accesa” come il giorno, con fari e illuminazioni che hanno consentito ingresso e uscita di cadaveri e personale dalle zone contaminate.

Testimoni dichiarano che i veterinari e gli operatori preposti si sono mossi velocemente, spesso senza l’uso dei dispositivi necessari a ridurre il contagio. Anche adesso, nell’assolato parcheggio in cui stanno convergendo gli attivisti e le attiviste intenzionati a impedire l’esecuzione della condanna a morte, gli animali degli allevamenti del pavese sono uccisi a ritmo serrato.

Il problema, però, come sempre, passa in secondo piano. Se la questione è la presenza di una malattia che uccide i suini, selvatici e domestici, andrebbero capiti i motivi della sua presenza. Nel nostro caso, la presenza massiccia, sovrumana (nel senso che supera numericamente quella degli esseri umani) di suini negli allevamenti intensivi. Spazi chiusi, in cui migliaia di animali sono concentrati in attesa di ingrassare o sgravare abbastanza per essere uccisi e diventare un prodotto vendibile a un tanto al kg, che sbavano, grufolano, defecano, partoriscono, si feriscono (e vengono feriti). In spazi ridotti, pensati per ottimizzare l’allevamento, in cui la propagazione è praticamente scontata.

Dunque, arginare il problema dovrebbe significare osservare la problematicità di questi ambienti, auspicabilmente da un punto di vista etico, ma quantomeno da una prospettiva sanitaria. Gli allevamenti intensivi sono potenziali cluster pandemici, epidemici, bacini di sviluppo di agenti patogeni che, grazie al prolungato contatto con l’essere umano, potrebbero addirittura fare il salto di specie.

Eppure non vengono messi in discussione. Ogni tanto si ragiona sui metodi, qualche associazione riesce, con un prolungato lavoro a ottenere tutele welfariste che allargano le gabbie, riducono le torture o, perlomeno, le rendono note. Ma le gabbie, più o meno larghe, restano. Perché dalla loro esistenza, deriva un guadagno stupefacente, ricavato dallo smantellamento degli animali non umani e dall’impiego di manodopera altamente sfruttata, che riceve un minimo percentile del guadagno reale.

L’aria odora di feci, il sole secca la strada e l’attesa si prospetta lunga. C’è chi garantisce i rifornimenti di presidi sanitari (tute, calzari, disinfettanti etc.), chi organizza spostamenti e chi predispone i comunicati stampa. Ci si prepara per azioni tempestive, ma anche per la sosta prolungata, per la notte e per i giorni successivi. Una rete sottile e appena visibile si sta stendendo attorno al rifugio, al momento in stato di sequestro, per garantire ai maiali eventualmente malati di morire degnamente nel posto in cui sono vissuti, liberi.

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