Economia

Cina: dopo 2 anni torna la deflazione

Il colosso asiatico rientra nella pericolosa situazione di calo dei prezzi dovuto a una contrazione della domanda da parte dei consumatori. Pur di rimanere sul mercato, le imprese potrebbero ridurre gli stipendi e licenziare i dipendenti
Credit: EPA/WU HAO
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17 agosto 2023 Aggiornato alle 20:00

Mentre le banche centrali di Europa e Stati Uniti sono alle prese con la spirale inflativa che fa aumentare i prezzi dei beni a sfavore della capacità di acquisto dei consumatori, dall’altra parte del mondo la Cina sta vivendo il problema esattamente opposto.

Si chiama deflazione, il cugino apparentemente meno dannoso dell’inflazione ma egualmente pericoloso, che consiste in una diminuzione generalizzata dei prezzi e un conseguente incremento del potere di acquisto della moneta. Può manifestarsi a seguito di una forte caduta della domanda da parte dei consumatori, fino a creare pressioni pericolose sui prezzi e anche sui salari.

La deflazione infatti è sintomo di una recessione dell’attività economica e dell’occupazione di un Paese, proprio perché nonostante l’aumento del potere d’acquisto i cittadini preferiranno comunque posticipare acquisti e investimenti nell’attesa di ulteriori ribassi dei prezzi. Con una diminuzione ulteriore della domanda quindi le imprese saranno costrette ad abbassare sempre di più i prezzi dei loro beni fino ad arrivare al punto di ridurre gli stipendi e addirittura licenziare molti lavoratori pur di rimanere sul mercato e onorare i loro debiti.

Dopo i dati negativi su import (-12,4%) ed export (-14,5%), le rilevazioni dell’Ufficio nazionale di statistica mostrano un indice dei prezzi al consumo a -0.3%, segnando l’ingresso della Cina in una situazione di deflazione che – fatta eccezione una breve parentesi a inizio 2021 a causa del crollo del prezzo della carne di maiale – il Paese non viveva dal 2009. Tutta colpa di una scarsa domanda interna, di un calo della produzione che perdura ormai da 5 mesi e di una crisi senza eguali del settore immobiliare – che da tempo rappresenta un quarto del Pil cinese – trainata da sovraindebitamento e crisi di liquidità di colossi del mattone come Evergrande, che soffre di un debito pari a 300 milioni di dollari, e Country Garden, indebitata per circa 200 miliardi e incapace di pagare i propri obbligazionisti entro le scadenze.

La mancata ripartenza dei consumi interni dopo l’allentamento delle stringenti misure anti-Covid cinesi ha contribuito a creare un clima allarmante nell’imprenditoria del Dragone, che per correre ai ripari è costretta a ridurre la produzione, bloccare le assunzioni e licenziare, andando quindi ad alimentare il problema della disoccupazione (specialmente giovanile) che in Cina ha toccato il livello record di 20,8% (incredibilmente vicino a quello italiano).

A pesare sulla situazione di allarme c’è anche l’ordine esecutivo appena firmato dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden e finalizzato a limitare gli investimenti statunitensi in Cina nel tentativo di ostacolare le capacità di Pechino nello sviluppo di tecnologie militari e di sorveglianza. Si tratta dell’ultima misura targata Usa per impedire l’accesso della Cina a tecnologie all’avanguardia che potrebbero migliorare la sua potenza militare. Atteggiamento verso la Cina che aveva già preso il via con la proliferazione di dazi imposti dal precedente inquilino della Casa Bianca Donald Trump. Si tratta di regolare gli investimenti dei fondi di investimento e le società di venture capital nelle imprese tecnologiche cinesi attive nei sensibili settori dei semiconduttori di ultima generazione, intelligenza artificiale e informatica quantistica.

Contemporaneamente, gli States aprono strade di approvvigionamento alternative intensificando gli scambi con l’India, il Messico, Tailandia e Vietnam, anche se la dipendenza economica con la Cina non subirebbe forti scossoni.

Non solo il Dragone rimane un grande acquirente dei titoli di stato americani, ma pare perfino che i nuovi alleati degli americani non siano altro che centri di imballaggio di merce cinese riconfezionata per aggirare i dazi.

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