Economia

Licènziáti: chi sta perdendo il lavoro oggi nelle startup?

Sono colossi che hanno accumulato profitti per anni. E ora licenziano. Stiamo parlando di multinazionali, banche e Bigtech. Se vuoi sapere quali, hai scelto la rubrica giusta
Credit: Minh Pham
Tempo di lettura 5 min lettura
3 agosto 2023 Aggiornato alle 10:00

Per le grandi banche, imprese del settore tech e multinazionali non è decisamente un buon momento: incertezza finanziaria e riduzioni significative degli investimenti hanno colpito le enormi aziende. Come accade per ogni crisi economica, a subire le vere conseguenze è il mondo del lavoro: non bastano riduzioni di capitale sociale e ricorso a sovraindebitamento per salvare i titoli sui mercati, spesso sospesi per eccessivo ribasso. Bisogna licenziare, tagliare le posizioni ormai superflue.

In un solo anno tantissimi protagonisti del mondo imprenditoriale della tecnologia hanno portato avanti cure dimagranti drastiche ma, secondo i loro calcoli, inevitabili per non essere espulsi dal mercato e collassare. Il portale online layoffs.fyi conta che nel solo 2023 ben 902 imprese del settore tech abbiano mandato a casa oltre 220.000 impiegati, 60.000 in più rispetto all’anno precedente, che contava licenziamenti fatti da oltre mille aziende.

Dominano la classifica i colossi della rete come Google e Meta, con circa 33.000 licenziamenti complessivi tra fine 2022 e inizio 2023, seguiti da Microsoft con altri 10.000 e Amazon che, attraverso varie tranche sparse fra i mesi dell’anno, ha indicato l’uscita a 27.000 dipendenti.

D’altronde, licenziare i dipendenti rappresenta il modo più facile e veloce per recuperare risorse e mostrarsi più dinamici agli occhi degli investitori.

Un’esigenza fondamentale per le big tech che non possono permettersi scivoloni finanziari e altre perdite di profitti, ma anche per tutto quell’universo di piccole imprese e multinazionali tascabili che necessitano proprio dei finanziamenti del mercato per costruire una base solida da cui lanciarsi e spiccare il volo.

Si chiama venture capital quella attività di investimento di medio-lungo termine con cui investitori istituzionali come i fondi finanziano imprese ancora non quotate ma con un alto potenziale di crescita (high grow companies), dotandole del capitale necessario per sviluppare la loro idea imprenditoriale.

Si tratta di operazioni che compensano l’alto livello di rischio con la speranza di futuri e ingenti guadagni, ma che nella prima metà del 2023 hanno visto perdere la loro attrattiva fra gli investitori istituzionali con un livello complessivo di investimento di 144 miliardi di dollari, molto meno dei 239 miliardi raccolti dalle startup nello stesso periodo dell’anno prima.

Inoltre, nei pochi casi in cui è stato racimolato del capitale di rischio, le piccole imprese hanno scontano comunque valutazioni dei propri titoli di molto inferiori rispetto al 2022.

A rilevare questa tendenza chiamata down round è Carta, fra le più note piattaforme di crowdfunding, attraverso cui imprese ancora non quotate raccolgono capitale di rischio in cambio di titoli, che nel primo trimestre dell’anno rilevava svalutazioni in un quinto di tutte le operazioni di venture capital.

Quando a soffrire la crisi sono i giganti della tecnologia come Meta e Alphabet - holding che hanno in pancia i gioielli più brillanti e indistruttibili di internet come Instagram o Google - l’opzione dei licenziamenti fa storcere il naso ad alcuni analisti, oltre che agli stessi dipendenti, in quanto si parla di società che a fine anno portano comunque a casa fatturati a diversi zeri e organi dirigenziali con lauti stipendi gonfiati da premi di produttività.

Sono casi in cui l’invio delle famose mail di licenziamento appare più come un accanimento verso le fasce più deboli e superflue della propria azienda, che una sofferta, dolorosa ma irrinunciabile decisione.

Ma nel caso delle startup la situazione cambia. Per le aziende ancora non avviate ma con un’idea potenzialmente vincente, specie se in campo innovativo, tecnologico e di ricerca, non può che scendere a compromessi con la dura realtà e fare di tutto pur di vincere la corsa al capitale. Come una mongolfiera che per non perdere quota deve alleggerirsi dei fardelli più pesanti, anche una startup è costretta a ritoccare la propria forza lavoro, che spesso rappresenta la voce più alta delle spese.

Secondo il sito di news incentrato sull’informatica e l’imprenditoria Hacker News, nell’ultimo mese le offerte di lavoro presso le startup sono diminuite del 40% rispetto allo stesso periodo del 2022.

Un trend osservato già da diversi anni, che vede il livello medio di occupazione nelle società di nuovo conio in costante calo anche per le startup più grandi, che arrivano a raccogliere anche più di 500 milioni di dollari.

Le startup quindi tentano di mostrarsi più snelle e dinamiche di fronte al mercato degli investitori, che sempre di più apprezzano il ricorso alle intelligenze artificiali per rimpiazzare una o più posizioni lavorative umane e contestualmente incrementare la produttività senza gravare sui costi.

Da meno di un anno sulla bocca di tutti, modelli informatici in continua evoluzione e in grado di fornire risposte e soluzioni sempre più precise (regressione permettendo), i software di intelligenza artificiale stanno diventando sempre più versatili anche nel mondo delle imprese, specie se attive in settori altamente tecnologici.

Si utilizzano chatbot per elaborare mail formali da inviare ai clienti, per programmare codici in minore tempo e lubrificare gli ingranaggi di quel processo che Mark Zuckerberg a inizio 2023 ha chiamato «anno dell’efficienza». Quasi una profezia, uno step ulteriore nel cammino della digitalizzazione, dove il profitto è la meta e la tecnologia è il mezzo per raggiungerlo, sempre che una adeguata regolamentazione a livello internazionale ed europeo non ponga dei limiti stringenti per evitare il peggio.

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