Economia

Licènziáti: chi sta perdendo il lavoro oggi alla Disney?

Sono colossi che hanno accumulato profitti per anni. E ora licenziano. Stiamo parlando di multinazionali e Bigtech. Se vuoi sapere quali, hai scelto la rubrica giusta
Credit: Craig Adderley.  
Tempo di lettura 6 min lettura
6 aprile 2023 Aggiornato alle 12:00

Per le grandi imprese del settore tech e multinazionali non è decisamente un buon momento. Incertezza finanziaria e riduzioni significative degli investimenti hanno colpito perfino aziende enormi come quelle della Silicon Valley. Come accade per ogni crisi economica, a patire le vere conseguenze sulla propria pelle è il mondo del lavoro: non bastano riduzioni di capitale sociale e ricorso a sovraindebitamento per salvare i titoli sui mercati, spesso sospesi per eccessivo ribasso. Bisogna licenziare, tagliare le posizioni ormai superflue.

Su forte pressione degli investitori, creditori e stakeholder, Disney si prepara a effettuare profondi tagli alle “attività non essenziali”. Comincia con un manager ottantenne, Isaac Perlmutter, famoso per aver venduto la Marvel Entertainment alla Disney nel 2009, facendola diventare uno dei comparti più redditizi della società, capace di riassorbire completamente i 4 miliardi spesi per l’acquisto grazie ai successi al botteghino dei suoi cinecomics.

Nonostante la posizione di rilievo occupata da Perlmutter, a pesare sulla decisione di farlo fuori sono stati i forti dissapori con l’amministratore delegato di Disney, Bob Iger, a seguito di un recente tentativo di scalata (ossia l’acquisto di partecipazioni azionarie sempre più alto per ottenere il controllo della gestione di un’impresa) effettuato l’anno scorso dall’azionista Nelson Peltz e fortemente coadiuvato dallo stesso Perlmutter.

La nuova riorganizzazione dell’organico Disney parte dai piani alti, per poi riversarsi a pioggia sui dipendenti di tutto il mondo. Il colosso dell’intrattenimento avrebbe già licenziato oltre 300 dipendenti del settore streaming a Pechino, ma si appresta a rimuovere circa 7.000 posti di lavoro in un’ottica di ristrutturazione e contenimento dei costi che l’azienda intende perseguire per risparmiare 5,5 miliardi nei prossimi 5 anni.

Il taglio della Walt Disney Co. si riversa perfino su un piccolo team di 50 persone assoldato nel febbraio 2022 per lo sviluppo di strategie atte a produrre contenuti e prodotti interattivi per il metaverso. Un investimento partito in pompa magna in simbiosi con i progetti annunciati da Meta, che prometteva una nuova rivoluzionaria frontiera della socialità, ma che si è sgonfiata nel giro di un anno e mezzo per via di perdite e costi eccessivi di sviluppo.

Pare che lo sviluppo tecnologico sia lo scopo principale anche di Warner Music Group, storica major discografica che chiudeva il 2022 con un fatturato di 5,919 miliardi di dollari, ma che ha deciso di tagliare circa il 4% della propria forza lavoro a livello mondiale.

La nota interna del ceo Robert Kyncl, che ha annunciato il licenziamento di 270 dipendenti su 6.200 sparsi in ogni parte del globo, avrebbe proprio come ragione di fondo quella di riallocare le risorse “verso nuove competenze per lo sviluppo di artisti e autori e nuove iniziative tecnologiche”. Una scelta, stando alla lettera, ben ponderata e che rappresenta un sacrificio inevitabile per garantire alla società le risorse necessarie ad affrontare le opportunità future e prepararsi “al successo a lungo termine”.

Le imprese dell’intrattenimento, dunque, cercano di posizionarsi, ognuna a suo modo, in un nuovo modello di business che vede l’investimento tecnologico e digitale come vera e propria punta di diamante, nonché voce più dispendiosa del bilancio. Un percorso che si propone di trovare il punto di incontro tra creatività, narrazione e intrattenimento con nuovi modi di fruizione da parte del consumatore, sempre più dettati dall’innovazione.

All’apice di questo sviluppo tecnologico sempre più repentino e incontrollabile si pone poi l’intelligenza artificiale: questione controversa, ancora non regolamentata dal legislatore europeo (e a maggior ragione quello nazionale), e che comincia a suscitare dubbi anche fra gli stessi imprenditori che da diverso tempo investono milioni per il suo sviluppo.

Al di là del rischio che l’AI si diffonda sempre di più nel mondo del lavoro per rimpiazzare interi gruppi di dipendenti o che venga utilizzata in maniera maligna per orientare l’opinione pubblica, a preoccupare oltre 1.000 imprenditori della Silicon Valley firmatari di una lettera aperta (Future of Life Institute) riportata dal Financial Times sarebbe proprio il rischio che la corsa fuori controllo agli investimenti in intelligenza artificiale possa “sviluppare potenti menti digitali che nessuno, neanche i creatori, possono capire, prevedere e controllare”.

Motivo per cui nella lettera, che assume quasi la forma di un manifesto programmatico, si chiede “a tutti i laboratori di intelligenza artificiale di fermarsi immediatamente per almeno 6 mesi nell’addestrare i sistemi di IA più potenti come GPT-4”, la quarta versione del chatbot capace di elaborare testi di qualsiasi entità e lunghezza, saltato alla ribalta negli Stati Uniti anche per essere stato sfruttato come scrittore automatico di tesine scolastiche dagli studenti.

Un blocco coordinato fra tutte le aziende e, soprattutto, pubblico e verificabile da tutti che vede come altra possibile alternativa una moratoria istituita dai singoli Governi. È la stessa lettera, quindi, che esorta gli ordinamenti a provvedere a una sospensione forzata degli investimenti sulle AI, nel caso in cui lo stop non venga attuato autonomamente dalle imprese.

Oltre a Steve Wozniak (cofondatore di Apple) e al candidato per presidenziali del 2020 Andrew Yang, tra i firmatari spunta anche Elon Musk. E chissà se saremmo mai giunti a una situazione per cui, secondo la stessa lettera, potremmo “perdere il controllo della nostra civiltà” se lo stesso Musk non avesse licenziato a novembre del 2022 il team aziendale etico specializzato in intelligenza artificiale che si occupava di rendere gli algoritmi del suo social network più trasparenti ed equi e, quindi, meno rischiosi per la collettività.

Il gruppo di ricercatori, chiamato non senza ambiguità Meta (MI Ethics, Transparency and Accountability), la cui attività era stata sospesa all’indomani dell’acquisizione da parte dell’imprenditore sudafricano, aveva svolto importanti ricerche relative a pregiudizi politici, etnici, di genere e di età che l’intelligenza artificiale mostrava di possedere involontariamente.

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