Diritti

Cosa ci insegnano 50 anni di occupazione femminile?

Women in the workplace: 50 years of change analizza l’effetto delle politiche per le famiglie sui percorsi di carriera delle donne. Tra passi avanti e un gender gap ancora da abbattere
Credit: Mizuno K
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
20 agosto 2023 Aggiornato alle 12:00

In 50 anni possono cambiare moltissime cose. 50 anni fa, la vita delle donne era profondamente diversa, almeno quella di chi vive, o viveva, nell’Occidente “sviluppato”.

Nella seconda metà del secolo scorso, infatti, abbiamo “assistito a uno spettacolare aumento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro, la convergenza di guadagni degli uomini e delle donne, e l’entrata delle donne nelle occupazioni tradizionalmente maschili”, ricordano Stefania Albanesi, Claudia Olivetti e Barbara Petrongolo in un articolo dedicato ai 50 anni di cambiamenti nel rapporto tra donne e lavoro, pubblicato sulla rivista del Centre for Economic Performance della London School of Economics and Political Science.

L’articolo dal titolo Women in the workplace: 50 years of change nasce dallo studio Families, labor markets and policy, pubblicato dalle docenti di economia all’Università Pittsburgh, al Dartmouth College e all’Università di Oxford nel novembre 2022, e analizza quale è stato l’effetto delle politiche per le famiglie sui percorsi di carriera delle donne negli ultimi cinquant’anni. Anni in cui ci sono stati innegabili passi avanti ma, altrettanto innegabilmente, dopo i quali le disuguaglianze di genere rimangono profonde e radicate, sia a livello di opportunità sia di salari.

Utilizzando dati comparabili per 24 Paesi a partire dagli anni ‘70, la ricerca ha documentato le differenze di genere nell’istruzione, occupazione e guadagni, ma anche la diminuzione del numero dei matrimoni (e il conseguente declino della fertilità), oltre al divario nei risultati del mercato del lavoro, soprattutto tra i genitori. A pesare sul gender gap, infatti, è (anche) la genitorialità, che si traduce in una “battuta d’arresto permanente” per le carriere femminili. Cosa che non accade nel percorso professionale degli uomini, su cui non grava quella che viene definita la motherhood penality.

«Il ruolo mutevole delle donne nella società ha generato, ed è stato spesso facilitato, dall’intervento del governo, da politiche delle imprese a sostegno delle famiglie e, in particolare, attraverso la messa a disposizione delle donne di mezzi per coniugare carriera e maternità. - spiegano le ricercatrici - Ma nonostante decenni di progressi, nella maggior parte di essi permangono notevoli divari di genere nei maggiori indicatori di successo economico».

Quali lezioni si possono imparare, quindi, da decenni di legislazione e valutazioni sul ruolo delle politiche per la famiglia? Gli studi sul congedo parentale esteso delle madri – una misura che negli anni ha rafforzato il ruolo tradizionale delle donne come mogli e madri in una società maschile in cui l’uomo è il breadwinner (quello che “porta a casa il pane”) – testimoniano che questa misura in genere ritarda il ritorno a lavoro delle madri dopo il parto, con un impatto negativo sui guadagni a breve termine. Non sembrano invece esserci impatti (sia positivi che negativi) a lungo termine.

“Prove molto recenti per gli Stati Uniti - però - raccontano una storia alquanto diversa sull’introduzione delle sei settimane di congedo retribuito in California, dove le prospettive occupazionali delle madri per la prima volta sono state influenzate negativamente, soprattutto nel lungo periodo”.

Ad oggi, quindi “ci sono poche o nessuna evidenza degli effetti benefici del congedo parentale più lungo sulla partecipazione materna al lavoro e i guadagni”. Gli studi sul congedo parentale, invece, mostrano come i padri rispondano agli incentivi, ma raramente accettino più della (breve) quota di tempo loro riservata.

Quello che sembra incidere sulla partecipazione materna al mondo del lavoro è – non sorprendentemente – una spesa maggiore nei servizi di assistenza all’infanzia. Questo, però, non vale nei contesti conservatori, in cui “le norme di genere limitano effettivamente la capacità delle madri di utilizzare l’assistenza all’infanzia”.

Man mano che l’idea del “capofamiglia maschile” è stata messa in discussione, la legislazione è cambiata: non più pensata per proteggere le donne dopo il parto ma per essere in grado di dare equilibrio vita/lavoro a entrambi i genitori. Ora, però, il sistema di politiche familiari dovrà essere in grado di ripensare se stesso e adattarsi alle nuove condizioni sociali: quello in atto nella maggior parte dei Paesi, infatti, “è principalmente progettato per soddisfare le persone di sesso opposto sposate, coppie con figli in comune”.

Ma mentre il numero di bambini nati all’interno di famiglie “tradizionali” declina e aumenta quello delle nascite in coppie non sposate, genitori single e famiglie arcobaleno (progressivamente riconosciute come strutture familiari anche a livello legale), “ è importante riflettere sull’inclusività degli stati sociali esistenti e il supporto familiare disponibile”.

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