Futuro

Twitter: oltre al rebranding c’è di più

L’uccellino è morto ed è arrivato X. Riusciremo mai ad abbandonare parole come “twittare”? Forse no, perché il social di Musk era già un marchio prima di lui (e della sua scelta senza strategia di marketing)
Credit: Patrick Pleul/dpa-Zentralbild POOL/dpa
Ella Marciello
Ella Marciello direttrice comunicazione
Tempo di lettura 7 min lettura
28 luglio 2023 Aggiornato alle 06:30

È raro, ma non improbabile, che i marchi diventino parole di uso comune. Entrano nella lingua sostituendosi ai loro competitor “generici” e lì si fermano, consolidando un potere pervasivo che non ha solo a che fare con le logiche di mercato.

Chiunque sa cosa sia un rimmel, un mocio, un kleenex o una moka. Che si tratti di naming di brand o prodotto poco importa. È ancora più raro, però, che un marchio si trasformi in verbo, legando a doppio giro branding e azione: è il caso, tra gli altri, di Twitter e del verbo twittare\retwittare. In gergo, questa dinamica si chiama “volgarizzazione del marchio” e, se da una parte, ogni azienda vorrebbe raggiungere questo livello di brand recall, dall’altra, nella mente dei consumatori, può perdere la sua associazione con l’azienda che l’ha creato.

È rarissimo invece, a mio parere, che il proprietario di un marchio che è entrato con il suo tweet all’interno di una nuova grammatica annunci piani complicati per distruggerlo intenzionalmente. Elon Musk ha annunciato il rebranding di Twitter e presentato il nuovo nome: X. Ha altresì affermato che “si sarebbe sbarazzato del logo con l’uccellino e di tutte le parole a esso associato, incluso tweet”.

Questa mossa, ultima di una serie di scelleratezze che conosciamo, ha spazzato via un valore tra i 4 e i 20 miliardi di dollari, secondo analisti e agenzie. Twitter aveva già notevolmente diminuito il proprio valore da quando era stato acquistato proprio da Musk lo scorso ottobre: lunedì mattina, il nuovo logo (una X maiuscola) ha gradualmente fatto la sua apparizione online. La volontà è quella, come ha sottolineato la Ceo Linda Yaccarino, di trasformare la piattaforma in un “sito per tutto: audio, video, messaggistica, pagamenti, operazioni bancarie”.

A livello puramente strategico, un rebranding può non essere una scelta avventata. In questo caso particolare però, ci sono diversi fattori che il multi miliardario con l’hobby dell’arroganza testosteronica non ha considerato.

Twitter è un marchio consolidato e riconoscibile ed è letteralmente ovunque, dalle vetrine dei negozi ai siti web e alle business card, insieme ai loghi di Instagram, Facebook e, da qualche tempo, TikTok. Usiamo twittare e retwittare come parte integrante di una certa celebrity culture, ma anche per spiegare come la comunicazione politica sia cambiata con gli scenari social e come parli oggi chi fa politica con il proprio pubblico.

Se Twitter muore e nasce X, a X verrà richiesto di ricostruire da zero la stessa attrazione culturale e lo stesso consenso linguistico e questa sì che sarà un’impresa spaziale.

Il rebranding in sé non è la questione: altre Big Tech ci sono passate prima di Twitter. Google si è trasformata in Alphabet Inc. per consentire a diverse attività all’interno dell’azienda di crescere, senza essere fagocitate o essere legate alla ricerca sul web. Facebook è diventato Meta Platforms Inc., per sottolineare l’impegno dell’azienda nei confronti del metaverso (a proposito, non ne stiamo più parlando o sbaglio?). I nomi dei prodotti, però, sono rimasti: facciamo ancora amicizia su Facebook e cerchiamo ancora cose su Google.

E questo è, in essenza, il valore del brand o, sempre in gergo, la Brand Equity: un concetto complesso e dalle diverse dimensioni, che va ben oltre la semplice definizione di awareness o loyalty ma le comprende entrambe. Di fatto, non esiste una definizione univoca ma molte interpretazioni percepite: la più comune, però, la descrive come la rappresentazione del valore di un marchio, la sua astrazione, ciò che fa provare, pensare e credere alle persone. Non parliamo quindi di caratteristiche (fisiche o digitali) ma di ciò che porta il pubblico a desiderare, sognare e, quindi, poi acquistare quel marchio. Insomma: la differenza tra quanto “vale” un prodotto e quanto vale lo stesso prodotto senza il nome del marchio associato.

Il valore del marchio di Twitter è stimato in circa 4 miliardi di dollari secondo Brand Finance, che valuta, a esempio, il marchio Facebook a 49 e Instagram a 47; ma la Vanderbilt University assegna un range diverso: tra i 15 e i 20 miliardi.

Proprio perché si tratta di layer percettivi, la valutazione di un marchio è difficile da determinare e non esiste un unico approccio, motivo per cui le stime posso variare considerevolmente. Quello su cui analisti e agenzie concordano, però, è che Twitter ha già subito un duro colpo dall’acquisizione di Musk: sempre Brand Finance attesta la perdita a -32% rispetto al valore dello scorso anno.

Quello che la leadership muscolare e delirante di Musk non ha calcolato è che la percezione del marchio di Twitter è già cambiata ed è il principale motivo per cui gli inserzionisti sono fuggiti. Già preoccupati per il clima di estrema tolleranza di Musk rispetto ai commenti d’odio, misogini, omofobi e razzisti, hanno fatto diminuire di oltre il 50% le entrate pubblicitarie per la piattaforma.

Musk ha cercato di compensare questo calo con il servizio di abbonamento premium (la spunta blu): ma a 8 dollari al mese la società avrebbe bisogno di decine di milioni di abbonati per tornare a galla.

Il punto è che ormai non si può più pensare a Twitter (o X) senza pensare al brand Musk. E questo intreccio pericoloso in termini di branding è già gran parte del valore del marchio. Le scelte di Musk sono completamente irrazionali, sono decisioni guidate dall’ego che poco o niente hanno a che fare con la tanto decantata “visione” o “genio”. Ce lo dimostrano le parole della Ceo quando racconta di come si vogliano implementare servizi bancari all’interno della piattaforma. Niente ha più bisogno della fiducia dei tuoi utenti come il concetto esteso di denaro: costruire servizi bancari e pagamenti in app richiederà una quantità di fiducia impossibile da garantire con un brand name nuovo di zecca. Semplicemente, non è così che funziona.

Una curiosità su X: Musk ha scelto X “perché gli piace la lettera”. Non esiste alcun concept o strategia di marketing. Una delle sue prime aziende è stata una banca online chiamata X.com e più tardi ha fondato SpaceX e la società di intelligenza artificiale X.AI. Ha persino chiamato uno dei suoi figli X Æ A-12. Se stessi parlando di qualunque persona al di sotto dei 12 anni definirei questi atteggiamenti capricci. Nello specifico, piccole ossessioni capricciose di multimiliardari. Perché se andiamo a ritroso ci accorgiamo che è così: l’1% detiene il 99% delle risorse e pensa di poter gestire il Pianeta e le persone come meglio gli aggrada, smantellando di qua e costruendo di là, solo perché può.

Elon Musk e la sua cricca di amici oligarchi dispongono di risorse paragonabili a quelle prodotte da una piccola Nazione ricca in un anno. Mentre Musk ha perso quasi la metà del suo patrimonio e presumibilmente continuerà a perdere ancora, sarà (nonostante tutto) ancora per molto tempo un multimiliardario. Quelli come Musk possono perdere più soldi di quanto ogni singola persona abbia mai perso nella storia e avere ancora abbastanza denaro per campare da miliardari per altre 10.000 vite.

Le probabilità che una cosa del genere accada aumenta se consideriamo gli effetti sociali dell’estrema ricchezza. Essere così ricchi tende sia a convincere le persone che si trovino di fronte a geni o eroi con capacità che non appartengono ai comuni mortali, che a isolarle da qualsiasi normale interazione o critica sociale.

È facilissimo fare proselitismo tra milioni e milioni che asseconderanno ogni capriccio o scelta non ponderata. È quello che succede nelle sette. Il problema, visto da qui, è molto più esteso della scelta di un nuovo logo.

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