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Sri Lanka: quanto affascina questo turismo coloniale

Viaggiare per immergersi in nuove culture… ma per qualche istante: nei ristoranti singalesi le posate vengono tirate fuori solo quando ci sono i turisti. Mangiare con le mani? Sì, ma al massimo una volta
Credit: Tirachard Kumtanom
Tempo di lettura 5 min lettura
16 agosto 2023 Aggiornato alle 06:30

Le guide hanno questa strana abitudine di sapere cosa possa piacere a chi legge. Avanzano questa pretesa con morbida perentorietà “vi piacerà tantissimo”, “non ve ne pentirete!”. Anzi, si permettono addirittura di lasciarsi andare a inferenze di sorta “se vi è piaciuto questo allora vi piacerà senza ombra di dubbio quest’altro”. Un po’ delle so tutto io, un po’ delle abili venditrici: così guidano lettrici e lettori che stanno, con tutta probabilità, pianificando un viaggio. Che si affidano a queste guide in qualche modo.

Statisticamente sono le persone più ricche del globo a viaggiare per diletto. E quindi sono anche quelle a cui queste guide fanno voto di rivolgersi. Ecco perché anche sull’ultima, fiammante, edizione di una guida per lo Sri Lanka si può ancora leggere “fascino coloniale” come pregio o, peggio ancora, come highlight di un viaggio. Case, edifici, camminamenti, costruzioni di sorta, non vanno persi perché “magnifici”, “maestosi” o che “ricordano gli sfarzi del passato”.

Strabuzzo gli occhi leggendo. Tanta bellezza, ma agli occhi di chi? Chi può considerare bella la traccia indelebile e tangibile di una dominazione? Chi forse, quel tipo di passato non l’ha mai esperito né ora né come retaggio. Per tutti gli altri, persone del luogo comprese, è uno schiaffo a mano aperta che ricorda loro che il turismo è un’industria occidentale, pensata per gli occidentali. Soprattutto visto che, a tutti gli effetti, lo stesso turismo mantiene in essere forme contemporanee di colonialismo e asservimento.

Questo ovviamente, la guida non lo dice. E nemmeno i blog o gli account che si occupano di viaggi. Piuttosto, si limitano a indicare posti da visitare con toni magniloquenti, coprendo di rosee aspettative il futuro visitatore. Magari con una bella foto zuccherosa scattata di fronte al Fort di Colombo e alla sua presenza coloniale.

In Sri Lanka, lo stato delle cose è davvero complesso. È una terra impoverita, sfregiata da una guerra civile conclusasi appena 14 anni fa. Crivellata dal risucchio di risorse assorbite da portoghesi, olandesi e, infine, inglesi. Questi ultimi ricevettero lo Sri Lanka come contropartita dagli olandesi: l’isola in cambio di protezione. Non tardarono a sostituire le piantagioni e coltivazioni con una monocoltura di tè. Lo stesso che oggi, in ogni supermercato o negozio di souvenir viene offerto ai turisti come pegno sommo dell’isola in un design dal sapore decisamente coloniale.

Le modalità coloniali del turismo sono sfacciate, non si premurano di nascondersi proprio perché possono raccontarsi come esperienze. Pagare una guida singalese perché permetta di saltare una coda, perché porti i pacchi, perché aspetti, per ore, seduta in tuktuk sono la normalità, o, più propriamente, quello che il turista si aspetta. Perché dopotutto, lo Sri Lanka, o chi per esso, sta lì per lui. Per regalare un’esperienza di vita o una lezione morale, per essere assaggiato, commentato e consumato.

Addirittura, previo pagamento, si può vivere l’ebbrezza di guidare un tuktuk e spostarsi sull’isola comodamente. Quello che per molti singalesi è uno strumento di vita, un lavoro, per il turista è il sollazzo, l’immersione nell’esperienza local. Questa parola è un fetish nel settore. Non rappresenta una comunità, ma l’idea di tutte le comunità autoctone dei Paesi visitati. Non siamo più nell’era del turismo, ma in quella post-turistica, in cui tutti vogliono sentirsi viaggiatori autentici, diversi, a contatto con quel mondo che nessuna guida insegna a guardare, figurarsi a vedere.

Esploratori: questa è un’altra delle espressioni grottesche e maldestre con cui, a volte, i turisti amano definirsi. Scopritori d’altri mondi, esploratori intrepidi, grandi navigatori. Una solfa romantica che rimanda all’epoca delle esplorazioni, che di fatto furono spedizioni con cui l’Europa contava di accaparrarsi più risorse, più territori e più commercio e che, nella maggior parte dei casi, si sono risolte con un genocidio o la riduzione al minimo dei popoli autoctoni.

Persino le forme degli hotel riprendono il gusto del viaggiatore ideale, con architetture, servizi e pietanze. La cultura locale viene spinta a margine, centellinata quel tanto che basta a date un tocco mistico al viaggio. In Sri Lanka, nelle tavole dei ristoranti singalesi, le posate sono tirate fuori solo se ci sono turisti in vista. Mangiare seduti, con le mani è un codice culturale, che però non va bene, fa puzzare le dita del turista di cipolla. Al massimo, può essere l’esperienza di una sera, la piccola avventura di chi il giorno dopo siederà in un cafè, incurante della sottoscritta e del suo vizio di origliare, a dire che “bello, ma non capisco come si faccia a mangiare con le mani”.

Come se ci fosse qualcosa da capire, un’equazione da risolvere. Come se in quell’accrocchio di numeri stesse alle persone singalesi dare le chiavi e segnare il terreno per sbloccare l’arcano. Viaggiare apre la mente, poi spesso gonfia l’ego, lo ingolfa di aneddoti che, il più delle volte, includono lo spettacolo della povertà altrui come prova del proprio coraggio.

Cosa è cambiato dai grand tour è poca roba, non lo compie più solo l’aristocrazia inglese ma l’aristocrazia globale; l’Occidente satollo e annoiato che vuole prendere, prendere sempre di più per consumare e consumarne ancora. Lo stesso che può bearsi delle proprie violenze e metterle sotto la voce “fascino coloniale”.

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