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A Bali si sopravvive col turismo

Qui la concentrazione turistica è così elevata da aver modificato drasticamente la cultura e l’economia locale. Ma la pandemia ha mostrato quanto questa dipendenza può essere nociva
Credit: Saverio Nichetti
Tempo di lettura 9 min lettura
18 luglio 2022 Aggiornato alle 13:00

Non sono solo impronte nella sabbia, ma percorsi. Centinaia di direzioni solcate da altrettante paia di piedi. Tallonate sulla terra, prima del mare, del tempio, del caffè dove servono le bowl con i cubetti di frutta nei colori dell’arcobaleno.

Prima del cestino che straborda bottigliette e bicchieri, spettri di centrifugati, prima del ciglio della strada pieno di motorini, prima di gettare l’ennesima sigaretta tra le curve della spiaggia. Bali è ricoperta di impronte, alcune più profonde di quanto un qualsiasi sguardo possa misurare a prima vista, così definite da essere quasi invisibili, mescolate come sono nel paesaggio demografico di quest’isola.

Bali è l’isola più visitata dell’Indonesia, la meta prediletta per chi raggiunge l’arcipelago, un’isola su 17.000 che da sola è capace di attrarre milioni di visitatori: 6,3 nel 2019, crollati a un singolo milione nei primi mesi del 2020 pre-pandemia.

Bali è oggetto di quello che viene definito turismo di massa, un misto interessante di persone che si affidano a pacchetti all inclusive e viaggiatori indipendenti che con lo zaino in spalla raggiungono l’isola per sostarvi per tempi anche più lunghi delle canoniche due settimane di ferie. La concentrazione turistica è tale da aver modificato drasticamente la cultura e l’economia balinesi e la pandemia ha mostrato quanto questa dipendenza possa essere nociva.

Nei primi mesi del 2021 si contavano appena 51 visitatori sull’isola, un bel salto dai milioni a cui si rivolgevano quotidianamente le strutture di settore. Secondo l’Ufficio centrale di Statistica indonesiano il crollo economico esperito dall’isola era pari al 99.95%. Alberghi, ristoranti, negozi e agenzie turistiche si sono ritrovate improvvisamente senza clienti, con le imposte chiuse, le piscine vuote e i conti correnti immobili.

Bali dipende, se non interamente, in larga parte dal turismo. Un turismo molto specifico e principalmente occidentale. Circa l’’80% dell’economia indonesiana dipende dal settore turistico, il che significa che la maggior parte degli impieghi, a sua volte, è connesso alla presenza di turisti.

Non si tratta solo di flussi istantanei e stagionali: nuove forme di residenze temporanee, figlie della disconnessione tra mansione lavorativa e ambiente di lavoro resa possibile dalle nuove tecnologie, hanno trovato in Bali il luogo ideale per realizzarsi. L’isola è divenuta la dimora temporanea dei nomadi digitali che, pagando prezzi ridotti, possono svolgere lavori sottopagati e mantenersi in un ambiente congeniale.

La compresenza di un costo della vita molto basso - in Indonesia un pasto completo per due persone a base di riso, tempeh, tofu, verdure di contorno e noodles conditi costa in media 3/4 dollari - e di paesaggi particolarmente suggestivi ha attirato un tipo specifico di nomadi digitali, quelli impegnati nella creazione di contenuti relativi ai viaggi.

Scorci fotografici mozzafiato, spiagge da sbiancare o tingere di rosa in post produzione, locali in stile boho e cuccioli di cane da stringere tra le mani per uno scatto veloce attraggono centinaia di influencer che, a loro volta, riescono a solleticare l’appetito dei loro follower. Secondo le stime dell’ente governativo Badan Pusat Statisti sull’isola sarebbero presenti circa 4,323 strutture per un totale di 56,442 stanze destinate all’accoglienza turistica, da sommarsi alle migliaia di ville private affittate autonomamente dai proprietari stranieri.

Il desiderio di viaggiare, il piacere di immaginarsi in quella medesima circostanza, il bisogno di emulazione unito a una punta di paura di star perdendo qualcosa (FOMO) spingono gli utenti ad accorrere all’isola per seguire lo stesso percorso scorto tra le pagine social o nelle descrizioni dei blog consultati.

Nel mentre, Bali ha smesso di essere Bali e si è tramutata nell’idea che l’occidente aveva di quest’isola. Il processo non è stato contemporaneo, ma è erede della dominazione coloniale olandese che già nel 1908 concepiva Bali come un museo a cielo aperto, vivente. L’idea era quella di incentivare politiche che la preservassero così come era percepita dal governatorato, ovvero un’enclave induista capace di resistere alla diffusione dell’Islam.

La divisione e la strutturazione di procedure per preservare l’autenticità si sono evolute nell’apertura al turismo nel 1924. Bali era stata pensata per essere uno scorcio su sé stessa, una porta aperta a un attraversamento occidentale e orientalista che su quel territorio voleva trovare specifici elementi. La tendenza non ha incontrato interruzioni, anzi, si è estesa proprio con l’avvento del turismo di massa.

Anche la cultura alimentare è stata modificata: i pasti sono stati orientati a soddisfare il palato degli ospiti, quindi a essere meno piccanti, e ad appagarne lo sguardo, a essere, in buona sostanza, meritevoli di una foto.

Contemporaneamente le attività sono virate sempre più verso l’industria con annessa redistribuzione delle risorse dell’isola. La disparità di consumo tra turisti e locali è particolarmente rilevante, tant’è che il 65% del consumo di acqua è destinato ai soli turisti.

Perfino la cultura e le tradizioni vengono incluse nella quotidianità dell’accoglienza come forma di intrattenimento. Lonely Planet definisce le danze balinesi una delle esperienze di maggior interesse da fare sull’isola, specificando che con un po’ accortezza sarà possibile per il viaggiatore indulgere in uno di questi spettacoli all’interno dei templi durante le celebrazioni o, addirittura, seguire un breve corso.

Le danze tradizionali, così come le cerimonie nei templi, sono eventi culturali che troppo spesso, e non solo a Bali, iniziano a essere annoverati come spettacoli da svolgere anche al di fuori della loro cornice originale per poter coincidere con le esigenze spaziali e le tempistiche del turismo. Lo stesso destino spetta agli abiti tradizionali, indossati non solo dal personale che svolge mansioni di conciergerie ma anche dai visitatori intenzionati a scattarsi una foto o a sentirsi parte della cultura locale.

La richiesta si traduce in produzione su larga scala, di spettacoli come di abiti e oggetti culturali, dai simboli ai manufatti, il cui scopo rituale viene allontanato in favore di un fine prettamente veniale.

Osservando i processi di orientamento dell’offerta in funzione delle aspettative della domanda - tradizione balinese ma con il comfort del turismo occidentale standard - è possibile notare la continuità rispetto alla natura originaria del turismo stesso. Nato come attività elitaria, il viaggio per diporto era considerato altamente formativo per i giovani uomini delle classi più elevate a cui le famiglie garantivano tempi e risorse per poter visitare paesi esotizzati e considerati meno sviluppati.

Se all’inizio l’Italia era una meta ricercata e i grand tour si trattenevano tendenzialmente in Europa, all’aumentare del prestigio dell’idea del viaggio è aumentata la distanza percorsa in direzione delle colonie. Il turismo nasce come fenomeno estrattivo, votato ad arricchire culturalmente e fisicamente i pochi che vi avevano accesso e a definire in maniera netta la legittimità degli ideali suprematisti che volevano l’Europa come il centro più sofisticato e civile del mondo.

In Bali questa tradizione appare evidente e non solo per le determinazioni volute dal governatorato olandese nel ‘900, quanto più per le modalità contemporanee di costruzione della presenza occidentale. Il turista abita strutture condivise con piscine a sfioro, conversa con persone balinesi avvolte nelle stoffe tradizionali, paga per balli in assenza di cerimonie, consuma cibi estranei alla cultura dell’isola e si ubriaca fino a notte tarda riposando sulle spiagge aggredite dai rifiuti.

Gli eventi meteorologici stagionali tipici della zona sono esacerbati dal cambiamento climatico, le piogge tendono a concentrarsi in eventi violenti capaci di ingrossare le acque in maniera inaspettata. Il mare, in questi casi, diventa un ponte mobile che trasporta l’esorbitante quantità di rifiuti da Java a Bali stessa, unendola alla mole prodotta dal turismo di massa. Il risultato sono dune di plastica che possono arrivare a ricoprire spiagge intere. In uno studio del 2020 relativo alla gestione dei rifiuti si era contata una produzione pari a 4281 tonnellate annue di rifiuti il cui 52% non viene gestito e smaltito correttamente.

Essendo Bali dipendente da un turismo estremamente connesso a internet, l’amministrazione si ritrova a dover fare i conti con un bisogno costante di pubblicità positiva. Spazzatura, povertà, alta densità demografica e crimine non sono una buona pubblicità. I processi espulsivi non sono ufficiali, piuttosto si verificano con una certa gradualità. L’afflusso di persone straniere con panieri economici più ampi modifica la curva dei prezzi rendendo più inaccessibile la vita quotidiana.

Segue poi una selezione delle mansioni, salvo quelle necessarie al funzionamento dell’isola, la priorità è orientata al settore turistico che richiede determinate competenze, quali la conoscenza di una o più lingue e una formazione destinata all’accoglienza. Le famiglie povere possono quindi risolversi a svolgere mansioni tradizionali o contingenti alla quotidianità dell’isola rimanendo gradualmente espulse da alcuni ambienti, come la zona a sud di Bali le cui espressioni urbane e strutturali, dai ristoranti alle spiagge, sono indirizzate al soddisfacimento delle esigenze e dei portafogli dei turisti.

Il legame tra Bali e il suo turismo è pervasivo al punto da rendere l’isola quasi interamente dipendente dal settore che, da solo, costituisce il 60% dell’economia isolana. Con la chiusura dei confini e le politiche governative di sospensione delle attività di accoglienza molti hotel hanno preferito cessare le attività piuttosto che pagare a vuoto i costi di gestione.

«Niente soldi, niente lavoro, è stato difficile - racconta Wayan, autista presso un hotel diffuso di Bali Nord - Il governo non ha aiutato. Anche se i turisti stanno tornando alcuni hotel sono ancora chiusi». Nel mentre anche i settori satellite, collegati in maniera più o meno diretta al turismo, hanno patito l’impatto dell’assenza di visitatori.

Ma l’isola ha ripreso a gonfiarsi, il traghetto delle 7.00 che connette Java a Bali ospita molti indonesiani ma molti più stranieri. Zaini grossi, infradito, capelli sciolti e biglietti di sola andata diretti a Bali sud, nella zona compresa tra Canggu e Ubud, là dove il turismo ha messo radici di cemento. Gli oltre 30 Starbucks sono aperti e macinano iced shaken espresso a nastro montando chiome di panna prima di consegnare il pratico bicchiere in plastica trasparente. Da portare in spiaggia, con tanto di smile.

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