Diritti

Ti pago in visibilità

Lavorare senza corrispettivo rischia di diventare la norma, bloccando le persone in un limbo. Alcune più di altre
Credit: Ron Lach
Tempo di lettura 4 min lettura
6 maggio 2023 Aggiornato alle 06:30

All’inizio sembra normale lavorare gratis. Tant’è che viene persino incoraggiato: «Devi farti conoscere, farti un nome», dicono. E ringraziare che qualcuno te ne dia la possibilità. Parenti, amici, colleghi, sono tutti concordi nell’affermare che sarà solo per poco, che devi stringere i denti, che poi andrà meglio.

«Gavetta», ripetono. Farsi una posizione lavorativa cominciando dal basso, con costanza e merito. Così ci raccontiamo che l’assenza di salario va bene, che è utile e funzionale a qualcosa. Ed effettivamente lo è, è utilissima e necessaria al mantenimento di un importante bacino di lavoro sottopagato o non retribuito, senza che nessuno se ne possa lamentare. Senza che sia denunciato per quello che.

L’accesso ad alcuni lavori è vincolato alla volontà di persone con un potere sufficiente da far passare la vicinanza a loro stesse come un pagamento. Non presentano offerte economiche, non le contemplano, ma mettono sul piatto della bilancia una nuova valuta, che per molti è persino più succosa del denaro: la visibilità.

Lo scambio si basa sulla cessione della propria forza lavoro a cui viene corrisposta la presenza su social, riviste o televisione. In parole povere si deve fornire gratuitamente una prestazione per essere visti e riconosciuti dagli utenti.

La diffusione dell’immagine - quale che sia il formato - è solo parte del pagamento ufficiale. Sì, perché il tutto si basa sulla promessa che tra il pubblico ci sarà qualcuno pronto a telefonare o scrivere per un ingaggio.

Il lavoro pagato in visibilità, di fatto, si erge sulla convinzione che, prima o poi, qualcun altro pagherà per esso. E nel mentre, si lavora a retribuzione sospesa, proiettandola come una possibilità futura che non è detto si realizzi.

Il problema non è esteso solo ai lavori creativi o ad ambiti particolarmente mediatici. Basta che l’azienda o l’ente abbia un social media e che sia riconosciuto in qualche modo, perché la transazione inesistente abbia luogo.

La distorsione del reale ci manipola prima ancora di queste offerte. Credere che i social siano un trampolino di lancio li ha trasformati in una piattaforma in grado di esserlo. Credere che chi ha un seguito cospicuo abbia un potere, significa concretizzarlo. Siamo di fronte a qualcosa che ha solidità solo perché noi crediamo ne abbia.

Vediamo il desiderio di realizzarci, la fretta e la competizione sommarsi, in un piccolo gorgo capitalista che ci porta a mettere in pausa persino la retribuzione. In cambio di cosa? Lavoro futuro, lavoro pagato da altri, lavoro importante.

Che, però, non arriva sempre. Anzi, rimane un miraggio, un’idea sospesa tra l’infinità di proposte della gig economy non retribuita che intrappola in un limbo.

Lavoro senza retribuzione, dopotutto, significa spendere il proprio tempo della vita e le proprie risorse cognitive e fisiche a vuoto.

Come si misura la dignità del lavoro? Con le tutele, l’attenzione e l’equa retribuzione. Nella parabola sociale della colpa originaria, quella per cui il neo-lavoratore “deve” qualcosa al sistema quasi fosse in debito più che all’inizio, questi tre elementi vengono sospesi. Il minimo sindacale oggi deve essere guadagnato dopo anni di silenzio, accettazione e immobilità.

Peggio ancora, la trappola del prestigio e della visibilità aiutano a sottrarre al lavoro l’equa retribuzione. E pare assurdo, incredibilmente assurdo, che accada in un mondo in cui l’unico valore diffusamente riconosciuto è quello economico.

La condizione penalizza maggiormente le persone più giovani, quelle appena entrate nel mercato del lavoro, quelle con circostanze biografiche e giuridiche precarie, ma anche chi lavora da tanto non è proprio al sicuro.

Nei lavori creativi, a esempio, la fanno da padrone finti baratti, per cui la prestazione viene fornita ma la retribuzione è solo illusione. Più che un baratto è un’acquisizione unidirezionale farcita dalla potenza dello share, del numero di utenti iscritti o del prestigio dell’agente economico di riferimento.

La massa viene venduta come retribuzione, quasi fosse solo un ammasso di numeretti, pari pari a quelli che descrivono un conto in banca.

Così, mentre si fatica a ottenere una retribuzione - figurarsi un equo corrispettivo - , chi può guadagna, chi ha potere lo esercita e i capitali si accumulano concentrandosi sempre di più.

La morale neoliberista sta raggiungendo il suo apice separando il lavoro dal salario pur ottenendo la prestazione.

E chi si ribella, beh, viene semplicemente tagliato fuori.

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