Futuro

L’odio online e la crisi dei social

Il Senato ha deciso all’unanimità di ricostituire la Commissione per il contrasto alla violenza online. Il lavoro da fare è enorme. Ma la prospettiva comincia a essere più chiara
Credit: Abel Kayobe/ Pexels
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26 gennaio 2023 Aggiornato alle 06:30

Il Senato ha deciso all’unanimità di ricostituire la Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza. Che naturalmente di questi tempi sono anche - forse soprattutto - fenomeni che si svolgono online.

Nella scorsa legislatura la Commissione è stata presieduta dalla senatrice Liliana Segre e si è occupata soprattutto di conoscere il problema, di studiarlo con una serie di importanti audizioni e con alcune ricerche e i risultati si trovano sul sito del Senato (in parte ha dato una mano anche chi scrive).

La conoscenza del fenomeno è ovviamente il primo passo fondamentale per contrastare l’intolleranza, il razzismo, l’antisemitismo e l’istigazione all’odio e alla violenza. Anche perché la più importante delle strategie è chiaramente quella di fare in modo che la parte sana e maggioritaria della popolazione sappia che esiste una minoranza violenta che rende più o meno rischiosi certi spazi della rete digitale. Rischiosi soprattutto per le persone più deboli, per i bambini, per coloro che possono diventare bersaglio della violenza online.

Conoscere significa porre le premesse per difendersi. E magari per creare sistemi, associazioni, aggregazioni orientate al sostegno e all’aiuto reciproco, forse anche alla risposta non violenta alle violenze. Di certo, occorre alimentare e approfondire il dibattito intorno a questo perché da qui si parte seriamente: tutto il resto è secondario.

Non mancherà però anche il dibattito sulle misure da prendere per contrastare l’intolleranza, il razzismo, l’antisemitismo e l’istigazione all’odio e alla violenza. Occorrono nuove leggi?

Occorrono nuove funzioni di controllo? A questo proposito si apre un dilemma fondamentale, che per adesso non è risolto: è possibile contrastare la manifestazione di idee di intolleranza e odio senza limitare la libertà di espressione?

Questo dilemma è mal posto se lo si prende come una questione di scelta tra principi considerati assoluti e non contestualizzati. La prima considerazione in proposito è che la libertà di esprimere odio e violenza è di per sé una limitazione della libertà di espressione delle vittime: quando queste vengono attaccate, di solito, la prima cosa che fanno è smettere di esprimersi online, cercare di sparire, uscire dal bersaglio dei violenti. È la loro libertà di espressione che viene limitata se non si fa nulla contro i violenti. Ma che cosa si può fare?

Antonin Gravelin-Rodriguez, l’avvocato di Magali Berdah, l’influencer vittima della campagna di cyber molestie lanciata dal rapper Booba, è intervenuto su Le Monde per chiedere che gli strumenti legali per combattere questo fenomeno sia rafforzato e semplificato. Ricorda l’avvocato che alla procura di Parigi è stato creato un polo nazionale per la lotta all’odio online e che sono state create delle squadre specializzate per affrontare i risvolti penali della questione.

Ma non basta, dice, di fronte alla gigantesca quantità di persone che si impegnano nella diffusione di messaggi di violenza: sicché suggerisce che le piattaforme vengano responsabilizzate, come se fossero giornali, nei quali il direttore è responsabile di quello che si dice sulle pagine dell’organo di informazione del quale si occupa.

Nel Regno Unito, il nuovo Online Safety Bill, quando terminerà l’iter di approvazione, vieterà i messaggi tossici e violenti attribuendo alle piattaforme il compito di impedirne la diffusione e un ruolo decisivo all’Ofcom, l’Autorità che si occupa delle comunicazioni digitali.

La protezione delle potenziali vittime dovrà crescere, nel Regno Unito, rispetto alla libertà di espressione, evidentemente. L’equilibrio da cercare in proposito è una questione delicata, affidata alla magistratura, al legislatore, alle piattaforme stesse.

In Europa, grazie all’entrata in vigore del Digital Services Act, le piattaforme che hanno mediamente 45 milioni di utenti mensili dovranno accettare un processo di co-regolamentazione dei loro comportamenti con la Commissione, allo scopo di arrivare a massimizzare la qualità del loro servizio ed evitare gli abusi, le violenze, le potenziali conseguenze tossiche e illegali delle loro piattaforme.

Insomma, l’autoregolamentazione e la consapevolezza degli utenti non sembrano bastare di fronte alla forza degli algoritmi, alla quantità di utenti che giocano con la violenza, alla strumentalizzazione delle debolezze architetturali dei media sociali da parte delle potenze straniere la cui strategia è stata quella di dividere le società occidentali alimentando l’odio e la disinformazione.

Intanto, alcuni media sociali giganteschi stanno perdendo la loro centralità, pur restando estremamente importanti.

Secondo Edelman, il pubblico ha sempre meno fiducia in quello che trova nei social network. Gli inserzionisti pubblicitari stanno spostando parte dei loro budget verso altre soluzioni, per esempio le piattaforme di e-commerce. E i mercati finanziari hanno sempre meno fiducia nella capacità di quelle aziende di superare le loro difficoltà di mercato e normative, tanto che la capitalizzazione di Meta è passata da quasi 1.100 miliardi a circa 300 miliardi in un anno.

Tutto questo non risolve il problema. Oltre a proteggere le persone nel contesto delle piattaforme attuali, occorrerà anche aumentare la loro capacità di trovare più informazioni affidabili e nuovi spazi per esprimere opinioni liberamente. La soluzione strategica si trova nella fioritura di nuove piattaforme, disegnate in modo che limitino la circolazione di informazioni tossiche, con modelli di business più orientati alla qualità che alla quantità. La strada è lunga. Ma la prospettiva comincia a essere più chiara.

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