Storie

Chi è Phillis Wheatley, la poetessa schiavizzata nel XVIII secolo?

Originaria del Gambia e condotta a Boston nel 1761 all’età di 10 anni, è stata la prima afroamericana a pubblicare un libro in un’epoca dominata dal razzismo
Credit: Getty Images 
Tempo di lettura 5 min lettura
13 ottobre 2023 Aggiornato alle 09:00

Il Museo nazionale di storia e cultura afroamericana dello Smithsonian (Usa) acquisisce un’importante collezione riguardante le opere di una poetessa schiavizzata del XVIII secolo e contribuisce a fare emergere come la letteratura, l’arte, la creatività resistano alle barbarie e trovino espressioni anche in condizioni di atroce soggiogamento.

Andiamo per ordine. La donna in questione, una africana originaria del Gambia (anche se c’è chi colloca la sua nascita nel vicino Senegal) condotta a 10 anni a Boston nel 1761 come bambina catturata e fatta schiava, si chiama Phillis Wheatley (il cognome è quello della famiglia che “acquistò” la piccola, Phillis è il nome della nave negriera su cui viaggiò dall’Africa a Boston, ndr).

In America è da secoli una celebrità non solo per essere stata la prima americana di origine africana a pubblicare un libro, ma per il grandissimo valore delle sue opere. In un’epoca di schiavismo sfrenato e razzismo feroce, Phillis trovò l’ispirazione per scrivere versi e il coraggio di farseli pubblicare.

Nel 1773, si imbarcò su una nave che la condusse a Londra, dove si era organizzata e pagata un viaggio di promozione del suo libro di poesie in uscita, il primo mai pubblicato da una americana di origine africana. Nel viaggio di ritorno, la giovane scrittrice, approfittò del lungo tempo a disposizione e compose la sua opera più famosa (ma inedita, venuta miracolosamente alla luce nel 1998, durante un’asta, ndr), Ocean, un’ode che evoca sogni e libertà, dal tono meravigliosamente poetico.

Ocean fa ora ovviamente parte delle opere acquisite dal Museo nazionale di storia e cultura afroamericana dello Smithsonian e comporrà quella che, secondo il museo, sarà la più grande collezione di materiale di Wheatley mai esibita.

Tra gli oggetti e gli scritti figureranno 30 articoli di giornali che parlano di lei, libri con sue poesie o riferimenti a lei, oltre a materiale che documenta la sua vita letteraria. Il direttore del museo, Kevin Young, ha definito Ocean «stupefacente». «Ma ciò che mi ha davvero stupito – ha poi aggiunto - è stato vederlo insieme a un numero del giornale Boston Evening-Post che riportava il suo ritorno da Londra».

Young segnala giustamente, inoltre, la sua sorpresa nel notare come una giovane donna si esprimesse poeticamente in una lingua non sua che era stata costretta a imparare da schiava. Proprio per sottolineare quanto fosse straordinaria la sua storia è utile citare che nello stesso numero del Boston Evening-Post in cui si parlava trionfalmente della Wheatley, compariva un articolo nel quale si chiedeva con urgenza la restituzione di una schiava fuggitiva, della stessa età delle scrittrice, di nome Nancy.

Wheatley è da molto tempo ospite fissa dell’esposizione principale del museo Smithsonian dove, proprio di fronte a una parete su cui campeggiano le parole della Dichiarazione d’Indipendenza, si erge una sua statua, quasi a mettere in contrapposizione l’assurdità dello schiavismo e del razzismo, ancora molto presente negli Stati Uniti e che affonda le sue radici in quella lunghissima quanto infausta epoca, permanenti nonostante dichiarazioni e costituzioni.

Sempre nel museo è da tempo esposta una copia del suo libro del 1773 Poems on Various Subjects, Religious and Moral (“Poesie su vari argomenti, religiosi e morali”) che riporta il suo ritratto nel frontespizio, eseguito da Scipio Moorhead, un artista nero schiavo.

Wheatley ingaggiò una fitta corrispondenza con George Washington, incontrò Benjamin Franklin ed era ben nota a Thomas Jefferson che, però, la disprezzava (il terzo presidente degli Stati Uniti, tra i principali autori della Dichiarazione di Indipendenza, possedeva oltre 600 schiavi che non liberò mai e non si pronunciò mai per l’abolizione della schiavitù, ndr).

Poco dopo la pubblicazione del suo storico libro, alla fine del 1773, la poetessa fu liberata e sposò John Peters, un commerciante nero libero. Esperti sostengono che abbia avuto 3 figli che non sopravvissero all’infanzia. Morì, in povertà, nel 1784, a soli 31 anni.

È interessante notare che Phillis Wheatley ricorse spesso al suo cristianesimo evangelico per affrontare le questioni razziali nell’America del tempo. Nelle sue poesie e in altri scritti si rivolge e istruisce i bianchi evocando un’uguaglianza di tutti gli esseri umani sul piano spirituale e, quindi, umano.

Nei decenni successivi alla sua vita, la scrittrice assurse con sempre maggiore forza a simbolo di liberazione e riscatto nero e femminile anche se durante il movimento Black Arts degli anni ‘60 fu criticata una sua presunta acquiescenza nei confronti del sistema schiavistico. Dagli anni ’80 in poi, invece, Wheatley è nuovamente tornata a rappresentare un simbolo di libertà e arte nera e, come riporta il New York Times, ha ispirato poeti neri come Nikki Giovanni, Honorée Fanonne Jeffers, Amanda Gorman e Young, che hanno trovato aspetti sovversivi nei suoi versi neoclassici.

L’arte trova strade impensabili anche nella più terribile delle sofferenze. La grandissima scrittrice Toni Morrison, la prima afroamericana a vincere il Nobel per la letteratura nel 1993, che rifiuta letteratura bianca sullo schiavismo, descrive con una scrittura struggente cosa abbia significato la vita in cattività di milioni e milioni di individui per secoli, considerati al pari delle bestie, erano esseri superiori, in grado di generare arte, di elevare il pensiero, l’anima, la dignità, ovunque si trovassero.

Leggi anche
razzismo
di Chiara Manetti 3 min lettura
Il lockdown a Shanghai
censura
di Valeria Pantani 3 min lettura