Diritti

Chi è Narges Mohammadi, Premio Nobel per la Pace 2023

L’attivista iraniana è stata premiata per il suo impegno nella lotta a favore dei diritti umani nel Paese. In questo articolo ti raccontiamo la sua storia
Credit: Reihane  Taravati  

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10 ottobre 2023 Aggiornato alle 12:20

Il regime degli ayatollah iraniani l’ha arrestata ben 13 volte, condannandola a 31 anni di carcere e 154 frustrate.

Ma quest’anno il suo coraggio e il suo attivismo nella lotta per i diritti umani in Iran le sono valsi il Premio Nobel per la Pace.

Narges Mohammadi ha vinto il Premio Nobel per Pace la scorsa settimana, senza però poterlo ritirare: al momento si trova in carcere in Iran.

La sua vittoria ha però avuto una risonanza mondiale che ha infastidito il governo iraniano.

Il portavoce del Ministero degli Esteri Nasser Kanaani ha cercato di sminuire quanto avvenuto dicendo che «il Comitato del Premio Nobel per la Pace ha assegnato il premio a una persona condannata per ripetute violazioni della legge e comportamenti considerati penalmente rilevanti».

Nel frattempo però gli attivisti iraniani festeggiano e sperano che questo riconoscimento possa aiutarli nella loro difficile lotta contro il fondamentalismo presente nel Paese. Una battaglia di cui la neovincitrice del Premio Nobel è ormai una delle protagoniste più importanti. E per dirlo basta guardare la sua storia: nata nel 1972 a Zanjan, capoluogo dell’omonima provincia a Nord dell’Iran, Mohammadi si è avvicinata all’attivismo già durante gli studi universitari in fisica, fondando il gruppo degli “Studenti illuminati”.

Ha iniziato a farsi notare già alla fine degli anni ‘90 quando è stata tra i tanti giovani sostenitori del riformista Mohammad Khatami, la cui elezione nel 1997 aveva entusiasmato le fasce della società che speravano in un rilassamento delle norme ultraconservatrici volute dagli ayatollah del Paese.

Proprio a questo periodo risale la prima condanna: nel 1998, per avere criticato il governo. Nonostante i suoi sforzi, Khatami non era però riuscito a realizzare le riforme promesse e nel 2005 al governo erano tornati i conservatori con Mahmud Ahmadinejad.

Questa serie di eventi ha disilluso la generazione di Mohammadi, ma non l’ha fatta arrendere. Nel corso degli anni successivi l’attivista si è distinta per il suo impegno nella lotta contro leggi conservatrici come quella che rende l’hijab, un copricapo usato nella tradizione islamica, obbligatorio per le donne.

Nel 2009 è arrivata anche una nomina importante: Mohammadi è diventata vicepresidente del Centro per la difesa dei Diritti umani, fondato da Shirin Ebadi, la prima donna iraniana Premio Nobel per la Pace e di cui Mohammadi è considerata l’erede. Con questo ruolo l’attivista ha difeso i prigionieri politici nei procedimenti giudiziari e si è battuta contro la pena di morte in Iran.

Nel 2011, mentre era detenuta in carcere, ha scoperto di soffrire di un disturbo neurologico che può provocare convulsioni ed embolie polmonari.

L’ultimo arresto risale al 2021 quando è stata arrestata per avere partecipato a una cerimonia commemorativa in ricordo di una delle vittime della repressione che nel 2019 spense nel sangue uno degli ultimi tentativi di rivolta da parte dei giovani.

Nel 2022 è riuscita a far trapelare una lettera in cui denunciava le violenze sessuali subite dalle detenute delle carceri iraniane. Nel frattempo non vede da anni né il marito, anche lui imprigionato più volte, né i figli, tutti riparati all’estero per sfuggire alla persecuzione politica.

Con l’inizio delle ultime rivolte legate alla morte di Mahsa Amini, la ragazza morta nel settembre del 2022 in seguito alle violenze inferte dalla polizia religiosa che l’aveva accusata di non avere indossato l’hijab nel modo corretto, Mohammadi ha intensificato i suoi appelli dal carcere affinché il suo Paese non sia lasciato solo e la comunità internazionale si attivi per sostenere chi chiede il cambiamento.

A differenza di molti altri attivisti, si è sempre rifiutata di abbandonare l’Iran, una scelta che secondo molti ha influito nell’assegnazione del Nobel per la Pace e che è stata ribadita anche dopo la vittoria del riconoscimento.

Mohammadi ha infatti dichiarato di volere continuare il suo impegno nel Paese anche se dovesse «passare il resto della vita in prigione».

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