Futuro

Chiacchere da bar

Sono seduta a fare colazione (cappuccino e brioche vegana) e intanto drizzo le orecchie per ascoltare le voci che mi circondano. Assisto solo a conversazioni superficiali, razziste, anti-meridionali, sfuggenti, veloci. A cui non si dà il giusto valore
Credit: Kate Townsend 
Tempo di lettura 7 min lettura
26 aprile 2024 Aggiornato alle 06:30

La gente al bar chiacchiera. Si racconta alle altre persone. Non contano tanto gli argomenti, almeno non tanto quanto “parlare”. Non viene sempre dato valore a ciò che si dice, non quanto al semplice fatto di “dire”. Perciò si parla velocemente, sfiorando a fior di labbra cose a cui forse non dà il minimo peso (certamente non il giusto).

È così questa mattina. Sono seduta, in attesa che arrivi il cappuccino con il latte di soia e mi ritrovo circondata dalla versione recitata delle notizie del giorno e non solo. Intorno a me vortica il momento prima dell’ingresso a lavoro, intrecciato al sentire comune, non necessariamente generale o condiviso, al particolare angolo con cui chi è qui, ora, vede il mondo.

Ci sono 2 uomini, vestiti come chi deve andare in ufficio ma non ricopre un ruolo per cui deve indossare una certa formalità, staff manageriale, si vede dalla vespa fiammante ma anche da come parlano del lavoro. Parlano di altri e per le cose da fare usano il “noi”, sapendo però che saranno proprio quegli altri a dover fare quanto deciso (o concordato) da loro. Si spalleggiano in questo confronto tra settori. Si misurano e vogliono essere misurati.

La conversazione scivola (senza che io capisca come) su Marsiglia. “Ci sei mai stato a Marsiglia?”, “No”. La persona che ha fatto la domanda, casco al gomito e sigaretta tra le dita, sorride, felice di essere nella posizione di poter dire qualcosa di autorevole inoppugnabile.

“Bella eh, ma pericolosissima”, “Ah sì? Davvero?”, “Eh, sì, piena di brutte facce, brutta gente. Lì se le danno mica da ridere e bisogna stare molti attenti”. L’altro manager, quello con i jeans e un giubbotto azzurro con una toppa raffigurante la bandiera italiana sul braccio, i polsini a righe bianche e blu e il colletto tipo bomber americano, assume uno sguardo stupito. “Hai presente Napoli, cioè, sei mai stato a Napoli?” Annuisce. “Ecco, immaginati una Napoli 4 volte Napoli”.

Il terrore di Napoli per 4 volte? Strabuzza gli occhi. Se lo immagina, ma non riesco a capire bene cosa stia immaginando. Perché onestamente, quella Napoli è ben diversa da quella a cui penso io. Alle vie petrose che si acciottolano in centro come pure alle case senza soluzione di continuità, ammassate le une sulle altre, che fanno la periferia.

Ci sono tornata poche settimane fa e ho camminato di notte ridendo a voce alta, senza preoccuparmi di questa Napoli del terrore che vive negli accenti della Brianza. Una città ferita, ma quale città non lo è? Sarà che vengo dalla Comasina; saranno tante cose, ma questa Napoli di paura che fa da unità di misura della percezione del pericolo mi pare proprio un’assurdità. Come pure Marsiglia: una Marsiglia che è Napoli sommata a sé stessa per quattro volte.

Chiudo gli occhi, cercando di non aspirare il fumo della sigaretta del manager che moltiplica le città o quello dello svapo usa e getta dell’altro. Marsiglia, certo, stessa storia. Con una differenza. Ripenso alle vie, alle immagini, a chi attraversa e fa Marsiglia. Ah, certo, giusto. Persone di seconda e terza generazione, persone immigrate dai Paesi del Nord dell’Africa. La certificazione di pericolo sta lì, tra le persone meridionali e quelle razzializzate, probabilmente musulmane. Li guardo in tralice e vorrei dire qualcosa, ma sgusciano via, velocissimi. La sigaretta accesa sul cemento del marciapiede.

Mi alzo per spegnerla e vedo il via vai di chi esce dalla metropolitana. Questo bar è buffo, sorge proprio di fronte a una di queste bocche che ogni minuto rigurgitano i passeggeri e le loro destinazioni. Noto che si muovono con fluidità, come l’acqua attorno a un sasso. Ma non è un sasso, è un ragazzo nero che dice “Buongiorno” e allunga il cappello. Ficcano gli occhi nello schermo dei cellulari o guardano improvvisamente a terra, accelerano. Non come se fosse invisibile, ma proprio come se fosse un disturbo da evitare.

Una signora incrocia il mio sguardo e alza gli occhi al cielo, mi comunica esasperazione per quest’uomo in cappotto e scarpe da ginnastica. Chissà, mi chiedo, perché dia per scontato che io accolga quel gesto, perché io sembri automaticamente sua complice. Mi guardo, come dall’esterno e penso che in effetti lo sembro e lo sono. Seduta al bar, nella mia pelle, in attesa di un bene comprato.

Dal buco sbuca fuori un’altra persona, il volto impaziente. Cerca qualcuno. Lo trova, al bar. Appuntamento per un caffè. Sorride, riceve un sorriso e un “Ciao”; entrano nel localino microscopico. Arriva S con il cappuccino e il suo caffè. Nel mentre la persona impaziente della metro esce e parla veloce, parla parole concatenate da una scossa di tensione. “Il portafoglio”, “Magari lo hai lasciato a casa?”, “No, dentro c’è l’abbonamento non avrei potuto prendere la metro…oddio la carta d’identità”. Mi appunto di correre, con sommo ritardo, di andare a denunciare la perdita della mia, scaduta oltretutto.

La persona si dispera, deve andare a denunciare ma: “E se mi chiedono i documenti?”. Il suo interlocutore la guarda e le dice con forza “Se ti chiedono i documenti testata in mezzo agli occhi” e appare pure felice della sua sicurezza, della sua assertiva certezza. Lei, un po’ meno, sconsolata, si appresta a chiamare in ufficio: dovrà fare tardi.

Chissà Milano quante Napoli è, o quante Milano è Napoli. Prospettiva e coincidenze, diamo una misura e una risposta, così possiamo disconoscere la realtà dei fatti. Che non è Napoli, Milano o Marsiglia il punto.

Di nuovo le mie orecchie si agganciano a un’altra conversazione. “Putin fa bene, mica si fa mettere al guinzaglio dall’Europa”. “Vero, vero” dice il pubblico del geopolitologo, un uomo come tantissimi altri, anche lui in giacca blu. Purtroppo questa chiacchiera svanisce dal mio radar: hanno preso il caffè a portar via. Sto mescolando il cappuccino, inzuppando la brioche che mi godo solo dopo aver chiesto 5 volte se è vegana: ma vegana vegana? Non integrale al miele, con le uova sottratte dallo sfruttamento all’aperto? “Vegana-vegana”, sorriso gentile del barista.

Arriva poi l’inevitabile parola: Israele. Uno sciame di salary man, colletti bianchi che spuntano dalla camicia e polsini dalle maniche della giacca, zainetti preformati, alcuni hi-tech, con la presa per caricare telefono e computer, pelle animale tirata in scarpe che luccica, gambe che si disarticolano per sedersi o che si muovono senza posa. “Sono stanco di vedere tutti questi adesivi, graffiti o che ne so”, “Ma non si rendono conto che rovinano le strade? Dovrebbero far pulire a loro tutto quel casino. Che poi ci spendono i soldi del comune”, “Già, e se poi dici che Israele ha ragione e che Hamas è un gruppo di terroristi fuori di testa, apriti cielo”. “Non si può più dire niente”, “Vero, vero”.

Dall’altra parte, una coppia di colleghe si sorride e chiede come sta. Come va la vita, cosa la turba. Una si sfoga, la solitudine, gli straordinari non pagati che sta facendo da due anni perché “mi hanno promesso la promozione” che però “continuano a dare a chiunque, tranne che a me”. “Vedrai che arriverà, se solo tieni duro”. Si rincuorano sorseggiando il caffè, scacciando la malinconia sotto l’effetto della caffeina.

Passano tre uomini diversi e mentre evitano la persona accostata al muretto delle scale della metro guardano le gambe e il seno delle due colleghe. Una se ne accorge e chiude il colletto della camicia, con finta distrazione. Una ragazza uscita dalla metro assiste e schiocca le dita, davanti ai loro visi. Arrabbiata, testimone della molestia. Intenzionata a non fargliela passare. A non scegliere la connivenza per tacito assenso. Poi, cammina via veloce.

Da dentro il bar arrivano parole. C’è un mondo di cose che sgorga dentro e fuori da queste persone. Ma il cappuccino è finito, come pure la brioche vegana-vegana. Bisogna mettersi in moto, prendere parte al rito della giornata; metto in tasca le conversazioni di questa mattina.

Le chiacchiere da bar, questa entità linguistica che avrebbe pure un senso se fosse più onesta, se non scadesse nella reiterazione costante di pregiudizi, affermati come fossero verità, forti del caffè e dell’autorità del mattino e delle sentenze assiomatiche, indossate come un’armatura. Chiacchiere che potrebbero essere quell’occasione per dirci come stiamo e preoccuparci di come stiano tuttə lə altrə. Eppure, siamo svuotati, convinti che basti un caffè a far andare bene la giornata. A riempirci.

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