Bambini

Baby influencer: un documentario francese mostra i rischi

«Se pensate che condividere la vita di vostro figlio sui social sia un atto innocente, sono venuta a dirvi che vi sbagliate». Enfants sous influence, surexposés au nom du like ci ricorda perché lo sharenting è pericoloso
Credit: Via France.tv
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
23 settembre 2023 Aggiornato alle 17:00

Un bambino di 13 anni ha in media 1.300 foto e video di se stesso sui social media. Foto condivise dai genitori – per divertimento, inconsapevolezza, o denaro – spesso senza valutare, talvolta senza conoscere, i rischi.

«Se pensate che condividere la vita di vostro figlio sui social sia un atto innocente, sono venuta a dirvi che vi sbagliate».

Non usa mezzi termini Enfants sous influence, surexposés au nom du like (Bambini sotto influenza, sovraesposti in nome dei like), il documentario realizzato dalla giornalista Elisa Jadot e andato in onda su FranceTV. Un breve ma intenso viaggio di 1 ora e 19 minuti in un mondo che la Francia prima di altri Paesi ha iniziato a monitorare, cercando di regolarlo: quello dei baby influencer e della sua versione meno remunerativa, ma altrettanto pericolosa, lo sharenting, la pratica di condividere (share) foto dei figli da parte dei genitori (parents).

Realizzato in Europa, Stati Uniti, Canada e Dubai, unendo testimonianze e inchieste inedite racconta e decifra gli eccessi delle famiglie di influencer. Dando la parola ad alcune di loro mostra come le intenzioni dei genitori, spesso ingenue all’inizio, diventano oggetto di un meccanismo infernale, dalle conseguenze sempre più drammatiche e irreversibili. Il documentario dà però voce anche a chi lancia l’allarme, come Delphine de Vigan, autrice di Tutto per i bambini.

«I predatori sessuali adorano i video di bambini che mangiano frutta perché fanno piccoli versi con la bocca e loro lo adorano. Quindi quando pubblichiamo la foto di nostro figlio che mangia la frutta non ci resta che dirci che potrebbe finire nelle mani sbagliate», spiega Jadot.

Una foto o un video che pensiamo essere divertente, buffo, innocente, ma che una volta consegnato al web potrebbe non esserlo più e trasformarsi in qualcosa di molto più pericoloso: immagini pedopornografiche, in cui è sconvolgente, ma non difficile, immaginare con cosa venga sostituita la frutta grazie a un colpo di Photoshop o di Ai.

I video che mostrano bambini ricevono 3 volte più visualizzazioni rispetto ai video che non li includono. Questo significa che, per chi ne fa un lavoro, i contenuti creati con i più piccoli sono un vero e proprio asset di business. Ma anche per chi condivide foto e video senza intenti economici la gratifica di like e commenti è spesso una spinta sufficiente per continuare a puntare su contenuti che coinvolgono i minori. Ignorando i pericoli a cui rischiamo di esporli.

«Se pubblico una foto di mio figlio, un giorno potrebbe finire su un sito pedofilo. Non possiamo sapere quanti siano effettivamente punti d’incontro di predatori sessuali, perché si tratta di siti che non si pubblicizzano come tali. Si presentano innanzitutto di banche immagini che assomigliano in tutto e per tutto alle banche immagini classiche. Almeno la metà delle foto scambiate su questi siti di pornografia infantile provengono dai social network e inizialmente sono state condivise dagli stessi genitori», spiega la giornalista.

Il documentario mostra proprio uno di questi siti, tra gli 880 più visti al mondo, con 75 milioni di foto e 25 milioni di visitatori unici al mese. Contrariamente a quello che potremmo pensare, «ciò che interessa ai predatori non sono solo le foto ‘di un bambino nudo’ - spiega Jadot. - Ciò che interessa ai predatori sessuali può essere solo un sorriso, uno sguardo un po’ birichino. Ho visto foto del tutto innocue di ragazzine ben vestite davanti agli alberi di Natale, ma che avevano dei bei volti, volti che attiravano i predatori sessuali».

Per alcuni pedofili che visitano questi siti, continua il documentario, queste immagini servono da esca «per poi scambiare email, account Telegram e condividere altri tipi di contenuti, effettuare ordini e alimentare la rete».

Uno scenario inquietante, a cui spesso rifiutiamo di pensare ma che è, invece, terribilmente reale perché non avviene in un futuro lontano o distopico ma adesso, qui e ora.

Inoltre, come abbiamo detto più volte, condividendo la vita dei nostri figli online non diamo solo la loro immagine in pasto a sconosciuti senza sapere come potrebbero usarla, ma anche informazioni preziose che potrebbero rivelarsi pericolose per la loro incolumità – nome della scuola, indirizzo, passioni – e anche per la nostra sicurezza digitale. Tutto questo senza che loro abbiano la possibilità di scegliere.

«Il consenso è una delle questioni che solleviamo nel documentario perché non ci poniamo molto questa domanda: i nostri figli sono d’accordo? Non sono d’accordo? In realtà, sono troppo giovani per poter dire se sono d’accordo o in disaccordo. Spetta a noi genitori garantirne la protezione. Non possediamo la loro immagine, dobbiamo tutelarla e garantire che sia priva di qualsiasi reputazione fino al compimento dei 18 anni».

Proprio nel documentario, a questa domanda risponde Jessica Thivenin, influencer da 6 milioni di follower che su Instagram e Snapchat condivide la vita dei due figli, Leewane, di 1 anno e mezzo, e Maylone, di 3 anni e mezzo, da quando sono nati. Anche la malattia di Maylone, nato con atresia dell’esofago, è stata condivisa, giorno dopo giorno, con i fan. «Non penso che si rendano conto, sono troppo piccoli. Io, se mio figlio un giorno mi rimprovererà di aver messo la sua storia medica sui social gli spiegherò semplicemente che sì, l’ho fatto ma mentalmente e psicologicamente era troppo dura, non ce l’avrei fatta. Speriamo che siano fieri di noi […] Certo, condividiamo la nostra vita per guadagnare soldi e tenere al sicuro la nostra famiglia, il che è la cosa più importante, ovviamente. […] Se la loro vita è un orrore, se il mio passato gli dà fastidio, possono cambiare nome, peccato, non li biasimerò».

E se il tema del consenso non sembra essere rilevante, nemmeno quello dei rischi del web sembra preoccuparla: «Non ho l’impressione che mettiamo in pericolo i nostri figli perché compaiono nelle nostre storie mentre giocano a calcio e danno calci a un pallone. Non immaginiamo che ci siano persone strane su social network, è vero che ce ne sono ma a quelli non pensiamo».

Leggi anche
Genitorialità
di Caterina Tarquini 3 min lettura