Futuro

Sharenting: i rischi sono anche per i genitori

Oltre a esporre piccoli e piccolissimi ai predatori del web, la condivisione delle loro foto e dei loro dati impatta sulla loro privacy (e reputazione) ed è un pericolo per la sicurezza digitale di tutta la famiglia
Credit: Anna Shvets/pexels
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21 dicembre 2022 Aggiornato alle 21:00

Chiunque di noi abbia accesso a un qualsiasi social network si è imbattuto, negli anni, in diversi contenuti che si possono catalogare sotto il profilo dello “sharenting”, un neologismo coniato utilizzando due termini anglosassoni: “sharing”, condivisione; “parenting”, genitorialità.

La parola sharenting descrive il fenomeno della condivisione online, da parte dei genitori, di contenuti inerenti la vita dei propri figli. Foto, video e storie che espongono sui social media la quotidianità dei minori, dal primo battito fetale in poi: la prima ecografia, il primo vagito in sala parto, i primi passi, la prima candelina, le prime parole, la prima pappa, il primo giorno di scuola.

La home dei nostri social media pullula di visini rosei e sorridenti di bambini alle prese con le loro pietre miliari, protagonisti assoluti dei profili (pubblici o privati) di mamma e papà.

Ma quali rischi si corrono a condividere online informazioni sui propri figli? Quali sono le possibili conseguenze, in termini di sicurezza informatica e non, dello sharenting? Quali i risvolti concernenti il tema della privacy e della reputazione dei minori coinvolti?

Sicurezza informatica

Accantonata momentaneamente la questione etico-morale, sottesa alla sovraesposizione dei minori su internet da parte dei loro stessi genitori, ci si chiede quali rischi si corrano in termini di sicurezza informatica.

Normalmente i genitori condividono online non solo foto e video che ritraggono i bambini ma, contestualmente, molte informazioni personali a loro ascritte.

Con la semplice presentazione del neonato ai tempi dei social media vengono, in un solo post, indicati il nome del bambino, la data di nascita, il nome (spesso con relativa geolocalizzazione) della clinica/ospedale dove è avvenuto il parto, il peso del bambino e il nome di medici e ostetrici che abbiano partecipato all’evento con tanto di tag e ringraziamenti.

Un solo post, caricato spesso da entrambi i genitori sui propri profili il loro nome e cognome chiaramente visibile, inserisce sulla rete tutte le informazioni base di un individuo ancor prima che questi sia in grado di camminare: nome, cognome, data e luogo di nascita, nome e cognome di entrambi i suoi genitori.

Con gli anni che passano si condividono sempre più contenuti relativi alla vita e alle esperienze personali del bambino come la prima vacanza, il colore preferito, il cibo più amato, il supereroe del cuore, il nome del primo animale domestico, il nome della scuola o del campo estivo dove trascorre le estati.

Dati che, per tutti noi nati prima dell’avvento del digitale, restavano nei racconti intorno alla tavola o negli album di famiglia ma che ora vengono inseriti sul web ancor prima di mettere radici nei ricordi e nella memoria degli stessi protagonisti.

Se tante di queste informazioni così intime, poi, vi suonano familiari non è solo perché avete avuto modo di vederlo fare a centinaia di utenti in relazione ai propri figli, ma perché spesso questi sono gli stessi dati personali che si inseriscono a tutela delle vostre password su decine di dispositivi e applicazioni differenti.

Le domande di sicurezza, necessarie per riappropriarsi degli account su decine di siti web (compresi quelli bancari o amministrativi), sono spesso informazioni come “il cognome di tua madre da nubile” oppure “il nome del tuo animale domestico dell’infanzia”. Informazioni personali ma che, allo stato attuale, milioni di profili condividono in merito ai propri figli e che, in un futuro non molto lontano, non saranno poi così private.

Facile pensare a come, a breve, migliaia di utenti potrebbero dover usare quelle informazioni per custodire la propria identità digitale senza avere contezza che, in realtà, quei contenuti sono stati condivisi con altre migliaia di utenti.

Perfetti sconosciuti che conoscono dettagli sulla loro infanzia, perché l’hanno vissuta in diretta su tutti i social media in voga 5/10/15 anni prima, o che possono facilmente reperirli grazie a una veloce consultazione dei più famosi motori di ricerca.

In parole povere se un giorno vorrete scoprire la password di uno soggetto su un determinato sito internet, rispondendo a domande di sicurezza su questioni personali come il nome del suo primo cane, basterà scrollare per pochi secondi un qualsiasi social network e ottenere tutte le risposte necessarie ad appropriarsi del suo account. Ma non solo.

Combinando, infatti, elementi quali nome e cognome, data di nascita, città di residenza (informazioni che quasi tutti i genitori caricano facilmente sui social fin dal primo istante di vita di un figlio) è plausibile arrivare a rubare l’intera identità digitale di una persona.

Questa spaventosa faccia della medaglia dello sharenting non è frutto di una visione distopica della realtà. Gli stessi istituti bancari stanno mettendo in guardia gli utenti circa il rischio di condividere online informazioni in merito alla propria vita privata e a quella dei propri figli. Dopo un decennio di sharenting incontrollato, cosa succederà alle vite degli adulti di domani?

Sicurezza personale

Se gli eventuali rischi connessi alla sicurezza informatica non sono sufficienti per dissuadere dallo sharenting, si aggiungono quelli potenzialmente verificabili nel mondo reale.

I genitori, nei primi 5 anni di vita dei propri figli, caricano online migliaia di foto nelle quali i bambini sono perfettamente visibili e riconoscibili. Non ci sono solo i loro volti ma, spesso, le foto e i video vengono corredati da informazioni quali condizioni di salute, istituti scolastici frequentati, attività sportive o ludiche svolte con regolarità.

Quante volte capita di vedere su un social media foto di bimbi in divisa scolastica, con lo stemma dell’asilo ben visibile in primo piano? Quante volte sono stati geolocalizzati in parchi gioco o strutture sportive nei quali il minore si reca con una certa regolarità? Parliamo di bambini, poi, dei quali si conoscono già tutte le informazioni base come nome, cognome, voce, gusti, interessi.

Non solo le foto o i video possono essere facilmente scaricati per essere utilizzati in maniera impropria da terze parti nel mondo digitale, ma i dati correlati possono diventare strumento nel mondo reale per trovare e avvicinare fisicamente il bambino in questione. Per Save the Children, contenuti come questi possono essere la chiave per identificare il bambino, localizzarlo e tentare un adescamento online e offline.

I genitori dediti allo sharenting darebbero mai a uno sconosciuto per strada le stesse identiche informazioni personali sui propri figli? Consegnerebbero fisicamente nelle sue mani foto e documenti grazie ai quali risalire a come si chiama, quale scuola frequenta, quale parco giochi predilige, che faccia hanno la nonna e la tata che se ne occupano in assenza di mamma e papà?

Molto probabilmente no, perché si teme giustamente che questi dettagli possano portare un malintenzionato a commettere un’azione potenzialmente lesiva nei confronti del bambino. Come mai, quindi, quando si tratta di social media e di condividere le stesse identiche informazioni con innumerevoli e indiscriminati sconosciuti non si avverte lo stesso grado di pericolo?

La questione non riguarda unicamente chi espone i minori su profili con centinaia di migliaia di utenti, anche a fini commerciali, ma coinvolge sempre più frequentemente persone comuni ma non per questo meno esposte a potenziali ripercussioni.

Si tratta di genitori che agiscono spinti dal desiderio di condividere o di esporre la propria vita online, ma che non comprendono appieno il livello di rischio connesso a una pratica che viene comunemente percepita come innocua e familiare. “Lo fanno tutti, anche persone molto più famose” diventa una giustificazione che in qualche modo esorcizza le paure e abbassa il livello di allerta.

Web reputation e diritto all’oblio

Se i rischi connessi allo sharenting presentano confini sempre più netti e ben identificabili, quello che si fa fatica a delineare correttamente è il diritto del minore alla propria privacy.

Ogni bambino ha la sua identità, che va rispettata e tutelata anche fuori dai desideri e le aspirazioni dei propri genitori. Questi, quando si tratta di sharenting, dimenticano facilmente come ogni condivisione avvenga senza il consenso informato e consapevole dei minori ritratti, minando la loro privacy presente e futura.

Quello alla privacy non è un diritto riferibile unicamente agli adulti ma attiene a qualsiasi individuo, anche bambini e adolescenti, come ribadito dalla Convenzione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e, recentemente, dal Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (Gdpr).

La legge, però, ancora non disciplina l’utilizzo dell’immagine dei minori se questo avviene sui social network e da parte dei loro stessi genitori. Che questo avvenga per finalità ludiche o commerciali è sufficiente il solo consenso dei entrambi i genitori. Ma chi vigila sull’opportunità di condividere determinati contenuti, come accadrebbe a esempio se il minore fosse coinvolto in attività legate ai media tradizionali?

Il genitore che condivide, sempre più spesso anche a scopo di lucro, è lo stesso che presta il consenso ed è lo stesso che decide cosa, come e quando pubblicare. Non esiste alcuna supervisione sullo sharenting da parte di persone o enti preposti specificamente a valutare i contenuti in questione, facendolo nel solo interesse del minore ritratto.

Su fronte social media non esistono, allo stato attuale, normative che indirizzino o vigilino in alcun modo le condivisioni attuate dai genitori, nemmeno nel caso in cui queste avvengano per finalità commerciali e a scopo di lucro, come nel caso dei baby influencer. Si tratta di una zona grigia nella quale sono i genitori a dettare le regole, anche se ne traggono vantaggi di qualsiasi tipo (che si tratti di denaro, regali o visibilità).

Lo stesso Ministero della Giustizia e il Garante della Privacy sono stati incaricati di regolamentare il fenomeno, comprendendo come la questione interessi milioni di famiglie.

La questione privacy, poi, non afferisce unicamente alla sicurezza fisica o informatica dei bambini coinvolti ma investe il loro stesso benessere psicologico. Quali effetti avranno sulla vita di quei bambini, un giorno adulti e adolescenti, determinati contenuti? Quali ripercussioni si concretizzeranno sul fronte sociale, relazionale e scolastico?

Alcuni dei contenuti condivisi potrebbero ledere la loro reputazione o essere fonte di imbarazzo o, ancora, dare adito a episodi di emarginazione o bullismo.

Non bisogna dimenticare come tutti i dati possono essere scaricati, condivisi ma anche manipolati. Un’eventuale aggressione alla reputazione del minore potrebbe avvenire non solo attraverso la condivisione del contenuto così come è stato ab origine caricato ma, anche, attraverso una sua manipolazione scientemente lesiva. Una delle realtà più pericolose, al momento, è proprio il fenomeno della deep fake: immagini e video vengono manipolati per creare contenuti differenti, alterati, spesso di carattere offensivo e/o sessuale.

Bisogna considerare, infine, che tutto quello che viene caricato online esce dalla sfera di dominio del genitore, che non può esercitare più alcun controllo sui contenuti da lui stesso postati.

I dati, una volta memorizzati sul web, si rendono permanenti e accessibili a chiunque. Difficilmente potranno essere rimossi e potrebbero essere scaricati, infinite volte, attraverso l’uso di motori di ricerca seguendo uno schema che sfugge alla volontà anche degli stessi autori della pubblicazione.

Tutto il materiale condiviso online negli anni va a creare una sorta di archivio digitale su scala globale relativo a quella specifica persona: una nutrita selezione di informazioni che non potrà mai essere del tutto eliminata dal mondo virtuale.

Come sappiamo, infatti, la peculiarità della rete è quella di non “dimenticare” i contenuti che vi sono stati riversati. Questo significa che i bambini esposti sui social network oggi, dai loro stessi genitori, vedono sfumato fin da ora il loro futuro diritto all’oblio. Come può, un genitore, farsi carico di cancellare il diritto all’anonimato di un figlio per il resto della sua vita?

Quella dello sharenting è una pratica che viene posta in essere con le migliori intenzioni, ma a oggi non è più possibile ignorarne rischi e conseguenze sul piano reale e digitale. Si tratta di una vera e propria emergenza che, nel migliore dei casi, può diventare fonte di imbarazzo per ragazzi e adulti di domani; nell’ipotesi peggiore potrebbe essere innesco per furti d’identità digitale, aggressioni fisiche e/o psicologiche e gravi violazioni della privacy.

L’educazione al digitale è una priorità: conoscere i potenziali rischi delle condivisioni e comprendere la portata delle proprie scelte significa porre in essere azioni più consapevoli sul fronte genitorialità e social media.

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