Diritti

2 agosto 1980: il ricordo della Strage di Bologna

Riportare alla mente ciò che successe quel giorno, onorare le 85 persone morte, non per riaprire una ferita; ma per liberarla dalla rabbia, dal desiderio di vendetta. E farla guarire
Credit: Archivio associazione dei famigliari delle vittime del 2 agosto 1980
Tempo di lettura 6 min lettura
2 agosto 2023 Aggiornato alle 06:30

Sono figlia di un aereo mai partito: un volo da Olbia a Bologna, rimandato a causa del forte vento. Il volo che avrebbe dovuto riportare mia madre a casa dalle vacanze, la mattina del 2 agosto 1980. Un inconveniente, una scocciatura; chissà le lamentele dei passeggeri che non sapevano (non c’erano gli smartphone nell’80) che quell’inaspettata contingenza meteorologica stava salvando loro la vita.

Ci sono fatti che ci segnano per sempre. Eventi storici di così grande portata che è impossibile sottrarvisi, e che si imprimono per sempre nella memoria. Così, noi tutti e tutte, credo, ci ricordiamo esattamente quello che stavamo facendo l’11 settembre 2001 quando venne dato l’annuncio dell’attacco alle Torri Gemelle.

E così anche mia madre ha impresso indelebilmente nella memoria quel 2 agosto, quando una volta atterrata a Bologna rimase attonita davanti al tassista che si rifiutò di portarla in stazione per prendere l’ultimo treno diretto a Nord. E poi la voce sgomenta e sollevata di mia zia che le diceva “Oddio, ma sei viva!”. Una memoria così vivida e incancellabile da essere entrata nella storia della famiglia. Della nostra, come quella di moltissime altre.

Il 2 agosto 1980 la stazione di Bologna è gremita di gente. Gli italiani e le italiane scalpitano dopo un anno di lavoro, non vedono l’ora di partire, sognano il mare e le vacanze. L’80 non è stato un anno facile: crisi economica, diversi avvicendamenti politici e, poco più di un mese prima, il misterioso incidente aereo di Ustica.

Ma sono passati anche 6 anni dall’ultima bomba finita nel sangue, quella del treno Italicus, e forse l’Italia sembra pensare che gli anni del terrore stiano scemando. Certo, in quei 6 anni ci sono stati episodi di possibile attentato, ultimo quello a Palazzo Marino, fallito per un pelo solo pochi giorni prima. Ma le bombe che non fanno morti fanno anche meno notizia.

È così, quando alle 10:25 una tremenda esplosione distrugge la sala d’attesa di seconda classe, la pensilina del primo binario e arriva a lambire perfino il parcheggio dei taxi di fronte alla stazione, la prima ipotesi che circola è che sia esplosa una caldaia.

Chi c’era però lo racconta: l’odore inequivocabile era quello dell’esplosivo. Più precisamente circa 15 chili di compound B (una miscela di tritolo e T4) contenuti in una valigetta abbandonata nella sala d’aspetto. Un esplosivo militare che, secondo quanto riportato da Paolo Morando nel suo libro La strage di Bologna. Bellini, i Nar, i mandanti e un perdono tradito (Feltrinelli, 2023, 339 pagine, 19€), proveniva da bombe inesplose della Seconda Guerra Mondiale che esponenti della destra eversiva avevano ripescato dai fondali del Lago di Garda.

L’esplosione uccise 85 persone, lasciandone ferite oltre 200. Fino all’attentato alla metropolitana di Madrid del marzo 2004, è stato l’attentato più sanguinoso della storia Europea dal 1945 e rimane comunque il più grave registrato nel nostro Paese tra tutti quelli avvenuti a partire dalla “madre di tutte le stragi”, quella di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 che diede il via alla cosiddetta strategia della tensione.

Non è questo il luogo più adatto per ripercorrere gli 11 anni che separano il 1969 dal 1980, anni pesanti non a caso definiti di piombo; anni di paura e terrore, anni di una guerra sottile, combattuta a colpi di ideologie e di pistola (questi ultimi più frequenti), anni di divisioni che rispecchiavano quello dell’ordine internazionale, dove c’erano i “rossi” e i “neri” ed era necessario stare da una parte o dall’altra. E odiare chiunque fosse dal lato sbagliato della barricata.

E non è neanche il luogo per ripercorrere minuziosamente i dettagli di ciò che avvenne a Bologna, e tutto quello che ne derivò, in termini di processi, depistaggi, condanne, polemiche (rimando per questo all’eccellente saggio di Morando citato prima).

È importante però soffermarci su quello che la strage di Bologna ha significato per il Paese, ritornare su quel trauma che fu individuale e collettivo e fare in modo che non venga mai rimosso, ma piuttosto rielaborato. Perché, di fronte a un’Italia come quella in cui viviamo oggi, altrettanto divisa, altrettanto polarizzata, altrettanto pronta all’odio di chi la pensa diversamente, non possiamo permetterci di dimenticare quali possono essere le conseguenze di questo tipo di clima politico e sociale.

Ricordare non è riaprire vecchie ferite per farle nuovamente sanguinare, ma piuttosto per liberarle dall’infezione: dal rancore, dalla rabbia, dal desiderio di vendetta. Liberarle per farle guarire meglio.

È stato questo il desiderio di Anna di Vittorio e Gian Carlo Calidori, che nella strage di Bologna persero rispettivamente un fratello e un caro amico e che per anni hanno bussato alla porta delle istituzioni per chiedere che venisse istituita una Giornata del Ricordo in memoria di tutte le vittime del terrorismo.

Instancabili e perseveranti hanno scritto dozzine e dozzine di lettere, a Presidenti di Camera, Senato e perfino della Repubblica, a politici, alte cariche dello Stato arrivando alla fine a rivolgersi anche al Papa. La loro richiesta è stata accolta solo nel 2007 e, grazie all’intervento di Giorgio Napolitano, proprio quell’anno il Parlamento ha approvato una legge che istituisce il “Giorno della Memoria”, con ricorrenza il 9 maggio di ogni anno, anniversario della morte di Aldo Moro per mano delle Brigate Rosse.

Memoria doverosa, che però non basta. Per prendere le distanze dalla cultura stragista che ha insanguinato la nostra storia anche in tempo di pace serve tirare in ballo un’altra parola, più scomoda e impegnativa: riconciliazione.

Lo hanno fatto sempre Anna di Vittorio e Gian Carlo Calidori, offrendo spontaneamente il loro perdono a Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, i 2 terroristi neofascisti appartenenti ai Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR) che, nel 1995, furono condannati come esecutori materiali della strage insieme a Luigi Ciavardini, condannato in via definitiva nel 2007. Il carteggio tra i 4 contribuì, secondo i magistrati, a provare la volontà di riabilitazione di Mambro che anche grazie a quelle lettere ottenne, nel 2008, la libertà condizionata.

E quasi importa poco che quel perdono sia stato tradito solo 4 anni dopo dallo stesso Fioravanti, perché in qualche modo era stato già messo in circolo nel tentativo di gettare nuove basi per il futuro. Quel futuro che, come disse Desmond Tutu, al quale Di Vittorio e Calidori si ispiravano per la loro idea di riconciliazione, non può esistere senza perdono.

Una lezione che non dobbiamo mai dimenticare, che sia il 2 agosto, il 12 dicembre, il 9 maggio o qualsiasi altro giorno dell’anno.

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