Culture

Opprimere le oppressioni

Emilia Roig in We Matter apre gli occhi ai propri lettori riguardo il legame che esiste tra razzismo, patriarcato e classismo. E spiega come combattere le disuguaglianze
Valeria Pantani
Valeria Pantani giornalista
Tempo di lettura 7 min lettura
25 giugno 2023 Aggiornato alle 08:00

Oppressione: sostantivo femminile; l’atto, il fatto di opprimere, (…) il senso di peso, di disagio, di molestia, d’angoscia che ne derivano. È questa la definizione che l’enciclopedia Treccani online dà della parola “oppressione”. La scrittrice e femminista Bell Hooks, invece, la definivaassenza di scelte”.

“Semplificando, l’oppressione si concretizza in primo luogo costruendo e affermando differenze ‘date dalla natura’, in secondo luogo collocando tali differenze in una gerarchia che definisce il valore della vita, garantisce l’accesso ai diritti e influenza i livelli di empatia, in terzo luogo attraverso la potente narrazione secondo cui spetterebbe a noi guadagnarci un posto in tale gerarchia”.

Così scrive Emilia Roig, fondatrice e direttrice del Center for Intersectional Justice di Berlino, in We matter. La fine delle oppressioni (Il Margine, 17,60 euro, 368 pagine): libro a metà tra un’autobiografia e un saggio intersezionale che racconta il legame tra razzismo, patriarcato e classismo. Perché sì: le oppressioni sono tante, tutte capaci di insinuarsi nella quotidianità delle persone e rafforzarsi a vicenda.

È tutto collegato. Se ci pensi, infatti, l’uomo ricco è privilegiato rispetto all’uomo meno ricco, mentre tutti gli uomini sono privilegiati rispetto alle donne in quanto maschi; le donne bianche, invece, sono privilegiate rispetto alle loro compagne nere; le persone eterosessuali cisgender sono privilegiate rispetto alla comunità Lgbtq+. In generale, se sei un uomo benestante, bianco, cis etero: hai vinto.

Ma “Il privilegio non dice nulla sulle nostre capacità e sui nostri talenti intrinseci - scrive Roig - Molte persone di successo (…) vengono trasportate verso l’alto da ascensori invisibili. I privilegi possono anche essere paragonati ai jolly nei giochi di carte. Tutt* riceviamo le stesse carte, ma alcun* ricevono anche un numero illimitato di jolly fin dall’inizio. (…) I jolly da soli non possono garantire la vittoria, ma aiutano enormemente”.

Si creano così gerarchie, costruite però dagli esseri umani: queste “classifiche”, infatti, non sono naturali, ma realizzate da chi ha il privilegio e la possibilità (come la non possibilità) di opprimere gli altri. Il problema, spiega Roig, è che più siamo privilegiati, più è difficile riconoscere, accettare, mettere in discussione le disuguaglianze ma, “Se avete in mano questo libro, probabilmente non accettate completamente la rappresentazione unidimensionale della realtà o siete per lo meno disponibili a metterla in discussione.

L’oppressione patriarcale

Patriarcato: sostantivo maschile; in antropologia, tipo di sistema sociale in cui vige il “diritto paterno”, ossia il controllo esclusivo dell’autorità domestica, pubblica e politica da parte dei maschi più anziani del gruppo. Questa è la definizione di Treccani online.

Per Roig “Il patriarcato pretende che le donne si facciano più piccole possibili. (…) E devono rimanere piccole, in modo che gli uomini non si sentano minacciati”. Quindi, devono vestirsi in un certo modo, fare determinati lavori, avere marito, figli e occuparsi della casa. Insomma, non devono essere “troppo”.

Si crede spesso, poi, che il patriarcato sia una lotta femmine vs maschi mentre, invece, questa forma di oppressione può essere vinta solo se si uniscono le forze. Certo è che sono le donne a impiegare più energie in questa battaglia, perché sono loro a esserne maggiormente colpite e risentirne nella propria relazione. Secondo lo studio del 2018 condotto dall’istituto di sondaggi tedesco Innofact e riportato in We Matter, gli uomini sembrano essere più felici all’interno della relazione e chiedono il divorzio nel 40% dei casi, contro il 52% delle donne (l’8% è consensuale).

È anche vero, però, che l’aiuto alle donne deve venire in primis dalle loro compagne. Quante volte hai sentito la frase “Le donne sono le peggiori nemiche delle donne” o simili? Anche loro, infatti, in alcuni casi, hanno un ruolo attivo nel patriarcato, quando giudicano le altre “troppo…”: grasse, brutte, magre, basse, alte, sicure di sé, maschili, ricche, povere, sexy, femminili…

Il patriarcato, infatti, non risparmia nessuna e nessuno: anche gli uomini ne soffrono. Ai bambini viene insegnato a non piangere, a non esprimere le proprie emozioni, a essere forti e, quando più grandi, ad avere un lavoro e portare i soldi a casa per prendersi cura della famiglia. Ma solo economicamente perché a casa, c’è la mamma che fa tutto. Gratuitamente. Parliamo di lavoro di cura: ovvero l’attività non retribuita di donne e madri dedicata alle “faccende domestiche”.

“Il lavoro di cura viene svalutato e reso invisibile nella società e viene svolto in gran parte da miliardi di donne non retribuite (…) rafforza anche le disuguaglianze sociali tra le donne in base a etnia, classe, nazionalità e status migratorio”. Infatti, “Affinché le donne che svolgono lavori ben retribuiti possano aumentare le ore di lavoro pagato - scrive Roig - o tornare a lavoro più rapidamente dopo la nascita dei figli, altre donne devono farsi carico del loro lavoro riproduttivo”.

Un altro stigma che aleggia attorno all’ideale di “donna perfetta” è che, per essere davvero così, non può essere una sex worker. “Essere definite prostitute è percepito come il peggior insulto possibile. La stigmatizzazione de* lavorator* del sesso perpetua la misoginia in modo sottile ma insistente (…) Questi commenti sono una forma di violenza sessualizzata che molte donne subiscono, lo slut shaming”.

Ma, come spiega Roig nel suo libro, anche quella del sesso è un’industria dove si vende e si compra un servizio che non è rappresentato, però, dal corpo della donna. “Alla fine della transazione la clientela non possiede il corpo de* lavorator*”. Questo vuol dire, secondo la scrittrice, che le lavoratrici del sesso non sono una merce; che il loro corpo non è un bene acquistabile e cedibile ma che, piuttosto, le sex workers vi hanno sempre il controllo. “Il lavoro sessuale può anche essere una sorta di empowerment, un modo per riappropriarsi di sé”.

Inoltre, il pregiudizio contro le sex workers non fa che alimentare la giustificazione di abusi e violenze contro di loro, insiti in commenti patriarcali tipo “Se l’è cercata”.

L’oppressione razziale

“Quando sentiamo al telegiornale che una donna è stata violentata o che una banca è stata rapinata, la prima cosa che ci chiediamo con ansia è: ‘è nero’?”

Non è un mistero che, in tutto il mondo, le minoranze siano discriminate in molti ambiti della vita quotidiana. Secondo lo studio condotto dall’Istituto di ricerca criminologica della Bassa Sassonia e riportato da Roig, le persone Bipoc sono punite con maggior durezza: l’esperimento condotto dal centro di ricerca, infatti, ha dimostrato come ipotetici imputati con un nome straniero venissero puniti più severamente rispetto agli altri.

Negli Usa, si legge in We Matter, i ricercatori di Stanford hanno dimostrato come i bambini neri vengano spesso considerati come adulti e che, quindi, meritino punizioni severe. “Negli Stati Uniti, i/le giovani ner* e non bianch* sono trattati più duramente de* loro coetane* bianch* (…) Gli/le student* hanno maggiori probabilità di essere sospes*, di essere segnalat* dalle scuole alle forze dell’ordine, di essere arrestat*, di essere processat* da un tribunale per adulti e, in generale, di ricevere sentenze più severe”.

Come si opprimono le oppressioni?

“Un primo passo per cambiare è smettere di ignorare il dolore che l’oppressione provoca”. E con questa frase, potremmo anche chiuderla qui. Ma la realtà è più complessa, proprio perché spesso alcune persone fanno fatica ad accettare che sì, sono gruppi privilegiati.

La chiave, infatti, è mettere in discussione la realtà a cui siamo abituati, ciò che noi chiamiamo “normalità”. La vita, infatti, scrive Roig, “è multiforme. A seconda dell’angolazione da cui la guardiamo, la realtà assume una forma diversa. Di solito adottiamo sempre la stessa prospettiva da cui osserviamo la normalità. Questo libro è un invito ad aprire la porta all’eterogeneità della nostra esistenza”.

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