Culture

Il privilegio sottovalutato delle donne bianche

Nel nuovo libro di Ruby Hamad, Lacrime bianche, ferite scure (Tlon Edizioni, 19 euro), si parla di razzismo e di un femminismo intersezionale spesso solo di facciata
Credit: Womanizer Toys/ Unsplash

Intersezionalità è un termine molto in voga, anche – e per certi aspetti soprattutto – tra le femministe bianche. Quanto, però, dichiararsi femminista intersezionale sia troppo spesso solo un esercizio performativo e non una reale volontà di comprendere fino in fondo i diversi livelli di discriminazione e oppressione che si intrecciano in ciascunə di noi ce lo mostra in maniera fin troppo chiara Lacrime bianche, ferite scure, il nuovo libro di Ruby Hamad in uscita per Tlon Edizioni (19 euro).

Un libro che le lettrici bianche, o almeno buona parte di esse, troveranno scomodo, ingiusto, accusatorio. Un libro necessario, proprio per questo.

Riconoscere il privilegio, abbattere il privilegio

Si dice che ammettere di avere un problema sia il primo passo per risolverlo. Potremmo dire lo stesso del privilegio.

E le donne bianche, ci ricorda Hamad, hanno sia un grandissimo privilegio che un grossissimo problema da risolvere: non solo l’incapacità di riconoscere il loro ruolo storico nel razzismo colonialista e nell’oppressione delle persone non bianche, ma anche la mancata volontà di ammettere che il vittimismo (le famose “lacrime bianche” del titolo) dietro cui si nascondono quando una donna di colore* le mette di fronte al loro razzismo altro non è che il perpetuarsi di quel sistema di dominio e sopraffazione che ha garantito per secoli la supremazia della razza bianca, con l’uomo al vertice e la donna al suo seguito, ancillare garante dello status quo.

L’essere bianchi è qualcosa che va ben oltre il colore della pelle, ma è piuttosto «un sistema che privilegia quelle identità razziali, culturali e religiose che più assomigliano alle caratteristiche tipicamente associate agli europei occidentali bianchi che hanno creato il sistema stesso a loro immagine e somiglianza». Un sistema ormai talmente radicato che può esistere anche senza i bianchi, che hanno difeso – e continuano a difendere – anche grazie alla figura angelicata e indifesa della donna bianca, posizionata su un piedistallo che è al contempo gabbia e arma contro chi bianco (e bianca) non è.

«Le donne bianche piangono tutto il cazzo di tempo»

Si potrebbe riassumere così, con la stringatissima ma efficacissima testimonianza di una donna nera, il cuore di quello che Hamad definisce un comportamento strategico, una performance di femminilità a cui dà il nome di Femminilità Bianca Strategica. Se ogni donna di colore non ha potuto fare a meno di incontrare e notarla nel corso della propria vita, questo atteggiamento sarà probabilmente meno evidente per chi, forse, lo ha messo in atto o lo ha visto in azione.

Quando vengono messe di fronte al proprio razzismo – o a un racconto del razzismo subito dalle persone di colore che non corrisponde alla loro visione della realtà – le donne bianche si spostano su una posizione di difesa, utilizzando la propria emotività come arma per trasformare vittime che hanno subito un torto in aggressive carnefici che ledono la loro delicata sensibilità.

Hamad, giornalista di origine arabe che lavora per i media australiani, aveva già denunciato questo atteggiamento nel 2018, in un articolo per il Guardian Australia dal titolo How white women use strategic tears to silence woman of color. Un articolo che, con crudele ironia, era costato il posto di lavoro a una donna di colore che lo aveva ricondiviso sui social per aver «creato un ambiente di lavoro ostile rispetto a questioni di razza e genere».

Il politico è personale

In un paradossale ribaltamento di uno dei principi fondanti del femminismo contemporaneo, di fronte alle accuse di razzismo donne (e femministe) bianche rendono il politico personale, spostando l’attenzione dal tema del dibattito alle proprie emozioni. E piangono. Questo le trasforma in damigelle in pericolo, ripristinando al contempo la loro immagine di persone buone e mettendo a tacere, ancora una volta, la donna di colore.

Di fronte alle lacrime bianche, infatti, non c’è scampo e l’unica scelta è tra arrendersi e diventare l’angry black (o brown) woman aggressiva che divide la sorellanza insistendo sula propria razzializzazione mentre le candide anime bianche “il colore della pelle non lo vedono nemmeno”.

Ed è forse questo il punto nodale della riflessione di Hamad, e sicuramente quello più interessante: il modo in cui le femministe bianche (o una significativa maggioranza di loro) affrontano l’oppressione delle donne – come se fosse solo come una questione di genere – significa negare come nel contesto coloniale che ha plasmato il razzismo della società contemporanea classe, sessualità, genere e razza fossero legati in modo inestricabile.

Sesso, genere e razza: alle origini del colonialismo moderno

È proprio questo rapporto strettissimo che Lacrime bianche/ Ferite scure mostra e dimostra, attraverso una rigorosa accuratezza storica unita a un linguaggio estremamente accessibile, tornando alle radici dell’oppressione coloniale per mostrare non solo come l’uomo bianco abbia strutturato e perpetuato la propria supremazia – e come la donna bianca sia stata uno strumento a essa funzionale – ma anche in che misura le donne di colore siano state doppiamente vittime e doppiamente oppresse, ultimo gradino di una rigida gerarchia basata su razzismo e sessimo.

Non solo l’angry black/brown woman, ma anche la Jezebel, il mito di Pocahontas e tutte le rappresentazioni stereotipate delle donne non bianche (dalla China Doll alla Dragon Lady, dalla Bad Arab alla Spicy Sexpot latina): Hamad ripercorre la genesi e lo sviluppo dei modi in cui le donne non bianche sono state narrate, evidenziando l’importanza determinante della componente sessuale in queste narrazioni, per mostrare come il colonialismo abbia manipolato la società contro le donne di colore per garantire all’uomo bianco il diritto di poter continuare a violarne i corpi e le vite assicurando al contempo la tutela della virtù delle donne bianche dalla minaccia del “Pericolo Nero”.

Si scrive femminismo bianco, si legge supremazia

Il libro, però, non è solo un’analisi storica o una riflessione sulle dinamiche che hanno portato alla creazione del razzismo contemporaneo così come lo conosciamo. E anche una messa in stato d’accusa non tanto (o non solo) delle donne bianche quanto del femminismo bianco mainstream. Quel femminismo che, radicato nelle politiche del XIX secolo e nella lotta per il suffragio, «incarna la gerarchia razziale e di genere». Un femminismo incapace di riconoscere l’oppressione che le donne di colore continuano a subire perché, invece che fare della supremazia dell’uomo bianco il bersaglio da abbattere, punta piuttosto a scalare questa gerarchia per porre le donne bianche sul gradino più alto.

Combattendo solo contro le limitazioni imposte al proprio genere per liberarsi dalla loro subordinazione agli uomini, conclude Hamad, le donne bianche ottengono l’effetto opposto al loro intento dichiarato, assicurando «la perpetuazione indisturbata del patriarcato: le loro lacrime armate ne sono una dimostrazione e un elemento funzionale», il modo in cui la società̀ bianca afferma e conserva il suo potere.

Definirci intersezionali piace. Fa sentire migliori, più aperte e inclusive.

Colmare la distanza tra le parole e i fatti, però, richiede un suicidio narcisistico non più rimandabile. Difficile, certo, ma necessario.

«Oscillando tra il loro genere e la loro razza», le donne bianche si muovono ancora tra l’essere oppresse e l’opprimere. Inconsapevolmente, forse, ma lo fanno. Questo libro è qui per farci aprire gli occhi.

«Non rimane più̀ alcuna scusa ragionevole per continuare a tradire le donne di colore. Le donne bianche hanno una scelta. È una scelta che hanno sempre avuto in qualche misura, ma mai prima d’ora sono state in una posizione così forte per prendere quella giusta».

*utilizziamo il termine “persone di colore” perché è quello scelto da Ruby Hamad che, nella nota al testo, spiega: «Quando parliamo di “persone di colore”, parliamo di chi viene escluso [dalla bianchezza N.d.A.]. Continuo ad avere dei dubbi sull’uso di queste parole – a esempio people of color è pericolosamente simile al termine razzista colored e questa locuzione potrebbe ridurre bisogni e problemi di particolari gruppi razziali emarginati ad altri – ma la mancanza di soluzioni migliori rende in alcuni casi necessario il loro uso».

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