Diritti

“Sex work is work”

Le professioni legate alla sessualità nel nostro Paese non sono regolamentate. Ne ha parlato a La Svolta Porpora Marcasciano, attivista trans e presidente della commissione Pari Opportunità del Comune di Bologna
Credit: Zeeshaan Shabbir
Alessia Ferri
Alessia Ferri giornalista
Tempo di lettura 6 min lettura
16 giugno 2023 Aggiornato alle 08:00

Il sex work è un fenomeno che in Italia vive in sospensione. Ovviamente si sa che esiste ma le regole che lo governano sono per lo più inesistenti, e anche là dove qualcosa c’è la chiarezza non è tantissima.

L’unica legge che se ne occupa, focalizzandosi però solo sulla prostituzione, è la Merlin che nel 1958 ha stabilito la chiusura delle case di tolleranze e reso illegale non la prostituzione in sé ma molte azioni collegate come sfruttamento o adescamento.

Da quel momento nulla in più è stato fatto, nonostante il lavoro sessuale negli anni sia cambiato enormemente e con esso anche il contesto sociale circostante.

Da anni sex worker, associazioni e attiviste chiedono il riconoscimento di queste professioni, che permetterebbe alle persone che le esercitano di pagare le tasse e godere di maggiori tutele, anche sotto il punto di vista della salute.

A portare avanti questa istanza c’è da sempre anche Porpora Marcasciano, attivista trans ed ex sex worker, con un lungo passato da presidente del Mit (Movimento identità trans). Dal 2021 è consigliera comunale e presidente della commissione Pari Opportunità del Comune di Bologna, dove alcune settimane fa si è svolto un importante convegno a tema, al quale ha partecipato. A La Svolta ha raccontato quali sono le istanze urgenti e come è cambiato negli ultimi anni il sex work.

Partiamo dalle norme che non ci sono

Questo è il problema principale. Mentre nel resto d’Europa le leggi che regolano i lavori sessuali esistono pur essendo molto diverse tra loro, da noi c’è solo la Merlin, che però non basta più e che soprattutto era nata con l’intento di tutelare le donne dallo sfruttamento ma che invece oggi, non essendo chiarissima, è usata spesso in modo arbitrario da questori e prefetti proprio per punirle, molte volte accusandole di sfruttamento solo per il fatto di vivere nella stessa casa di chi si prostituisce.

Negli ultimi 20 anni ho partecipato ad almeno una decina di incontri in sede governativa per mettere a punto una nuova legge, sempre finiti in nulla.

Perché?

Quando ci si siede al tavolo e si inizia a capire la complessità della materia tutti indietreggiano rendendosi conto dell’impossibilità di fare qualcosa nel nostro Paese.

La mia sensazione è che le uniche modifiche che potrebbero compiersi siano in senso repressivo. Basta emanare un decreto per criminalizzare i lavori sessuali, e i tentativi, soprattutto a livello locale, ci sono già stati.

Per regolamentarli bisognerebbe invece dire che sono comparabili a tutti gli altri e che devono quindi godere di medesimi diritti e doveri, tra i quali quello di pagare le tasse.

A quel punto però lo Stato, ricavando introiti da quell’attività, ammetterebbe implicitamente di appoggiarli ma l’Italia non se lo può permettere perché ha uno Stato dentro lo Stato (il Vaticano n.d.r.) che un po’ le detta le leggi, soprattutto se riguardano questioni eticamente sensibili.

Un tempo si parlava solo di prostituzione, mentre oggi il sex work ha assunto molteplici forme, soprattutto digitali, servono strumenti nuovi per parlarne e agire?

Sì e il convegno è servito anche a incontrarsi dopo diverso tempo per fare il punto della situazione. In questi anni la prostituzione è molto cambiata, si è diversificata e non è rimasta l’unica forma di lavoro sessuale. Non siamo più nell’era in cui una persona che esercitava la professione era facilmente riconoscibile perché quasi sempre per strada e corrispondente a stereotipi ben precisi e radicati.

Adesso sapere chi pratica sex work è difficile. Anche se sembra tutto esplicito perché andando sui social si ha la sensazione di trovare ogni informazione, il più delle volte si tratta di persone invisibili e invisibilizzate dalla società, anche a causa dello stigma sociale, e quindi più esposte a rischi.

Regolamentare significa anche averne traccia e garantire loro maggiori tutele sanitarie e sicurezza a livello di incolumità.

Ci sono spiragli all’orizzonte?

Pochi, e non solo a causa della maggioranza che oggi guida il Paese. Da questo punto di vista i Governi si assomigliano tutti. Il tema della prostituzione divide le persone in due schieramenti. Gli accusatori e abolizionisti che sostengono sia il male assoluto, e chi invece è favorevole a una piena legalizzazione e tutela. In queste due macro aree esistono varie sfumature ma è una questione molto delicata da trattare politicamente e culturalmente e nessuno sembra averne voglia.

Chi associa la prostituzione sempre allo sfruttamento è in malafede o davvero ignora che per molte sia una scelta?

Io non parlerei di malafede ma piuttosto del risultato del fatto che negli ultimi 20 anni si sia parlato di prostituzione per lo più in termini di sfruttamento delle donne. Ovviamente non si può negare che esista questo fenomeno ma è legato soprattutto all’immigrazione clandestina.

Tante subiscono violenze fisiche e sono costrette a pratiche che ne mettono in pericolo anche la salute e per loro bisogna fare tutto il possibile. Altre però hanno fatto una scelta consapevole ed esercitano volontariamente, sapendo benissimo quali sono le regole e la posta in gioco. Rischiano comunque ma meno e con maggiori tutele legali la sicurezza sarebbe ancora maggiore.

Che ricordi ha della sua esperienza di sex worker?

L’ho vissuta in modo continuo per 22 anni. Per me è stato un mezzo importante di sopravvivenza, crescita e autodeterminazione.

Ai miei tempi si lavorava soprattutto in strada ma era un altro mondo rispetto a oggi. I rischi c’erano ma nulla di paragonabile alle aggressioni diventate ormai all’ordine del giorno. Il livello di insicurezza legata all’incolumità e di pericolo per la salute è aumentato esponenzialmente nel corso degli anni e questo ha generato fenomeni di intolleranza e, come un cane che si morde la coda, ulteriore insicurezza.

In passato mentre esercitavo mi sono successi alcuni fatti spiacevoli ma di quelli che purtroppo ho sempre messo in conto, molto simili ad altri verificatesi in contesti differenti. Ora invece è come se le sex worker che lavorano in strada fossero quasi delle vittime predestinate.

Molte sono trans, sono a maggior rischio di aggressioni?

Sì. L’omotransfobia è aumentata tantissimo nel nostro Paese. In questo clima le persone trans sono le più visibili e diventano il bersaglio più facile da colpire, non solo nel campo del sex work, basti pensare all’aggressione subita da una donna transgender da parte delle forze dell’ordine alcune settimane fa a Milano.

Le più vulnerabili, come sempre, sono le immigrate irregolari, impossibilitate a denunciare le violenze subite.

Parlare sempre più e sempre meglio di determinati argomenti può aiutare a cambiare le cose?

È una battaglia che porto avanti da anni ma ormai sono disillusa. L’Italia è un Paese poco aperto, impreparato e non laico e quando un Paese non è laico manca l’oggettività per discutere i fatti.

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