Ambiente

Usa, comunità Bipoc: 4 volte più probabile che viva in zone inquinate

Secondo l’American Lung Association, le persone nere, latine e native sono più esposte a livelli di salubrità dell’aria scadenti. Il motivo è da ricercare nelle politiche di segregazione razziale degli anni ‘30
Credit: Isabelle Chapuis
Tempo di lettura 4 min lettura
8 maggio 2023 Aggiornato alle 14:15

Quasi 120 milioni di persone negli Stati Uniti sono esposte a livelli dannosi di inquinamento, ma le persone Bipoc hanno quasi 4 volte più probabilità di vivere in aree inquinate rispetto ai bianchi americani. Lo rivela lo studio dell’American Lung Association (Ala) che mette in luce decenni di politiche abitative e ambientali razziste.

Nel report State of the Air 2023, l’associazione esamina le misurazioni giornaliere e a lungo termine delle particelle fini e dell’ozono effettuate nei siti di monitoraggio ufficiali degli Stati Uniti; quindi assegna voti relativi alla qualità dell’aria per ognuna delle 25 contee esaminate. Ciò che emerge è che l’inquinamento atmosferico non è distribuito equamente: a essere più esposte a qualità dell’aria scadente sono le comunità nere, latine e indigene.

Le persone Bipoc sono meno della metà della popolazione complessiva degli Stati Uniti eppure, secondo le rilevazioni, superano la percentuale dei cittadini bianchi che vivono nelle località più inquinate: 10 delle 11 contee caratterizzate dalla presenza di polveri sottili (o Pm2.5) si trovano in California e qui il 72% dei 18 milioni di residenti colpiti sono persone Bipoc, rispetto al 28% di bianchi.

Soggetta a frequenti incendi e a temperature in aumento a causa del riscaldamento climatico, la California fatica a ridurre la quantità di particelle di fuliggine che finiscono nei polmoni e ha ricevuto le peggiori valutazioni sulla qualità dell’aria a breve e lungo termine. Tra Los Angeles, Fresno e San Bernardino, a subirne gli effetti negativi sono oltre 13 milioni di abitanti neri, inclusi circa 9 milioni di ispanici.

Negli Usa le patologie polmonari che includono il cancro ai polmoni e le malattie respiratorie come il Covid-19 rappresentano la prima causa di morte per malattia: ne sono affetti 34 milioni di americani e, nonostante gli sforzi per diminuire le emissioni complessive nel Paese, 1 cittadino Usa su 3 vive in aree con livelli nocivi di sostanze inquinanti e la maggioranza sono persone Bipoc.

La loro sovraesposizione all’inquinamento è connessa alle politiche di segregazione razziale che hanno orientato i piani abitativi negli Stati Uniti a partire dagli anni ‘30. Queste politiche governative avrebbero da un lato incentivato la creazione di aree urbane separate sulla base della presunta appartenenza razziale ed etnica, dall’altro favorito la costruzione di infrastrutture inquinanti, come autostrade e ferrovie e di impianti di produzione di combustibili fossili vicino a comunità discriminate per il colore della pelle.

Anche se la segregazione razziale di tipo abitativo è stata vietata negli Usa nel 1968, i suoi effetti sono ancora visibili. Lo studio pubblicato nel 2022 dall’American Chemical Society esamina i quartieri dove venivano sistematicamente rifiutati i mutui e l’acquisto di case alle persone nere (una pratica nota con il nome redlining) e li compara con i livelli di inquinamento atmosferico presenti tra le comunità americane. Ciò che hanno scoperto i ricercatori è che i quartieri sottoposti alla segregazione razziale durante gli anni ‘30 sono oggi esposti a livelli di inquinamento più elevati.

Le disparità di esposizione razziale ed etnica all’inquinamento persistono, spiega lo studio, perché le infrastrutture e le fonti di emissioni più importanti hanno un impatto di lunga durata sul territorio, mentre la maggior parte delle città statunitensi sono ancora abitate secondo i modelli di discriminazione applicati fino a 50 anni fa.

Ma non è finita. Le politiche discriminatorie che hanno contribuito a costruire le città americane sarebbero anche responsabili di esporre maggiormente le persone Bipoc agli effetti del riscaldamento globale. La University of Virginia e la University of Portland, a esempio, hanno recentemente scoperto che tra le aree urbane dove in passato sono state applicate più politiche di segregazione razziale e quelle meno interessate c’è una differenza di temperatura fino a 7 gradi centigradi.

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