Culture

Decarbonizzare e decolonizzare alla Biennale di Architettura

L’obiettivo di The Laboratory of the Future è, secondo la curatrice Lokko, «proporre idee ambiziose e creative che aiutino a immaginare un più equo futuro in comune». Grazie a un giro tra i padiglioni del mondo
Padiglione Usa
Padiglione Usa Credit: La Biennale di Venezia
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23 giugno 2023 Aggiornato alle 06:30

Decarbonizzazione e decolonizzazione sono i temi intorno ai quali si sviluppa la 18° Mostra Internazionale di Architettura de La Biennale di Venezia, inaugurata quest’anno, come per uno scherzo del destino, durante gli stessi giorni in cui si è verificata la drammatica inondazione dell’Emilia-Romagna.

Mai argomenti furono più calzanti dell’attualità: la natura ha definitivamente dichiarato all’Occidente che non può più demandare alle generazioni future la questione climatica e ambientale. È un problema che, oltre i politici, anche gli architetti e gli urbanisti devono non solo affrontare, ma dimostrare di saper affrontare.

Da qui il titolo The Laboratory of the Future, scelto dalla curatrice della mostra Lesley Lokko, architetta, docente e scrittrice, classe 1964, metà scozzese e metà ghanese, che ha invitato gli 89 partecipanti a interrogarsi riguardo il concetto di “cambiamento” come termometro del nostro tempo.

«Noi architetti - ha commentato - abbiamo un’occasione unica per proporre idee ambiziose e creative che ci aiutino a immaginare un più equo e ottimistico futuro in comune» e per farlo ha coinvolto nella riflessione anche diverse voci africane (oltre la metà delle partecipanti), storicamente tenute ai margini dall’Occidente: «Per la prima volta, i riflettori sono puntati sull’Africa e sulla sua diaspora, su quella cultura fluida e intrecciata di persone di origine africana che oggi abbraccia il mondo».

Protagoniste dell’Arsenale e del Padiglione Centrale dei Giardini sono le pratiche africane di contrasto alla siccità, al cambiamento climatico, di bonifica del territorio, ma anche le indagini riguardo il rapporto tra memoria, performance e architettura. Così come i contributi sull’architettura come confine e il suo superamento, sugli spazi liminali e sul concetto di soglia sono le testimonianze di un continente che ha già vissuto le criticità che oggi riguardano il mondo più sviluppato.

Anche le 64 Nazioni partecipanti, distribuite tra Giardini, Arsenale e centro storico di Venezia, si sono confrontate con i temi della mostra, riflettendo sulle conseguenze dello stile di vita capitalista, “demappando” i luoghi dai modelli coloniali, interrogandosi su come ri-sincronizzarsi con la natura per evitare, per esempio, inondazioni e mareggiate.

I Paesi Bassi propongono di superare una concezione dell’architettura che si basa sull’estrazione e sullo sfruttamento; Polonia e Israele indagano sull’influenza dei dati e delle infrastrutture informatiche sull’urbanistica; la Spagna analizza la produzione del cibo attraverso le architetture che “nutrono” il mondo; il Canada elabora un manifesto contro l’alienazione residenziale per ricostruire legami con la terra e la comunità; gli Stati Uniti fanno mea culpa per l’abuso di plastica; il Giappone si chiede se l’architettura possa essere ancora oggi intesa come creatura vivente e “luogo d’amare”; Svizzera, Austria e Germania mettono in discussione la Biennale stessa, destrutturandola. La Santa Sede (presente alla Biennale per la seconda volta) parte dalle encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti di Papa Francesco per invitare tutti a “Prendersi cura del Pianeta come ci prendiamo cura di noi stessi”, mentre l’Ucraina fa i conti con lo stato di guerra in cui si trova da oltre un anno, raccontando quali sono (e se ci sono) le possibilità di azione per gli architetti in una situazione di conflitto.

L’Italia affida il proprio padiglione alla cura del collettivo Fosbury Architecture che ha sviluppato 9 progetti in altrettanti siti sparsi per il Paese, rappresentativi di condizioni di fragilità o trasformazione del territorio, sfide “impossibili” se affrontate a livello globale ma in grado di produrre riscontri immediati e tangibili nei contesti locali (dalla rigenerazione delle periferie nel quartiere Librino di Catania, alla coesistenza multiculturale a Trieste, al superamento del divario digitale a Belmonte Calabro).

I più concreti sono gli architetti cinesi che mostrano come, negli ultimi 40 anni, abbiano avviato una vasta gamma di esperimenti di rinnovamento urbano e rurale, esplorando la vivibilità in ambienti ad alta densità.

Secondo la curatrice «Una mostra di architettura è allo stesso tempo un momento e un processo» che può «arricchire, cambiare o rinarrare una storia»; e The Laboratory of the Future risponde a questa idea attraverso le proposte dei partecipanti che vengono ridefiniti “practitioners” e non più solo “architetti”, “urbanisti”, “designer”, “ingegneri” o “accademici” perché, per affrontare la complessità del mondo postcoloniale, anche la figura dell’architetto non può più limitarsi alla sua vecchia concezione.

Ma come hanno esposto le loro pratiche alla Biennale questi nuovi “practitioners”? Come hanno tradotto in forma architettonica la storia e le identità espropriate? Come hanno mostrato il fare architettura nei contesti di scarsità, di clima estremo e di vulnerabilità economica?

Attraverso un articolato lavoro di rappresentazione e di documentazione, con film narrativi, con esposizioni e linguaggi artistici, con performance e dibattiti su identità e memoria, superando la dimensione tridimensionale dell’architettura. Non è nelle infrastrutture che questa Biennale avanza proposte, ma piuttosto nello studio dei progetti, nella concezione degli spazi e nel rapporto della collettività con la natura, in un’architettura che si fa comunicazione.

È una mostra che si pone come elaborazione di pensieri, idee e temi, come testimonianza visuale di discussioni, conversazioni e nuove consapevolezze emerse, concepita come “una sorta di bottega artigiana”. Per predisporsi al “laboratorio del futuro”, questa nuova generazione di architetti ibridi ha volto lo sguardo al passato, soffermandosi sul presente e le sue problematicità.

I “practitioners” raccontano e denunciano quello che è stato con l’ausilio di materiali di archivio, foto, video. Le pratiche presentate segnano la strada da dove veniamo ma non indicano quella che dovremo tracciare, si fermano alle domande che la nostra epoca pone, scandagliandole; portano i nodi al pettine ma senza scioglierli.

È una mostra politica che riposiziona l’architettura, dichiarando che, come le politiche culturali, è chiamata a rispondere alle istanze che vengono dalla collettività, a dare valore più al processo che al fine, a favorire la partecipazione e la creazione di comunità, a considerare la spazialità come luogo di espressione politica, a tenere conto delle persone non più come soggetti passivi ma come fruitori attivi e protagonisti di un processo di transizione verso altro.

Di questo altro, però, sfugge la definizione, la globalità e la complessità che richiedono visione, un sistema integrato, azioni e proposte concrete che la Biennale non dà. «The Laboratory of the Future non è un progetto educativo. Non vuole dare indicazioni, né offrire soluzioni, né impartire lezioni» chiosa Lesley Lokko.

E allora resta una domanda: che impatto ha questo approccio? Che risultato produce? Per tentare di trovare una risposta tra i padiglioni c’è tempo fino a domenica 26 novembre 2023, ultimo giorno per visitare la Biennale Architettura a Venezia.

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di Redazione 4 min lettura