Il valore della vita e del cibo

In Non morirò di fame - diretto da Umberto Spinazzola - facciamo la conoscenza di Pier, interpretato da un credibile Michele Di Mauro: lui è un ex chef stellato che ha perso tutto e deve “inventarsi” come sopravvivere ai margini di una società che, un tempo, lo aveva accolto.
All’inizio la vicenda è - volutamente - oscura perché la trama vuole focalizzarsi su come l’uomo debba fare i conti con la quotidianità, facendoci intuire che nel suo passato ci sono molte questioni irrisolte. La morte prematura della sua ex moglie e madre di sua figlia Anna - la giovane Chiara Merulla, per la prima volta sul grande schermo - lo costringe a tornare a Torino, dove si rifugia in una baracca messa a disposizione dal suo amico Annibale - Riccardo Lombardo - un imprenditore edile che possiede un deposito alle porte della città.
Nonostante il rapporto con la figlia sia tutto da (ri)costruire - non a caso era stata affidata alla zia Lucia, interpretata da Olivia Manescalchi - l’adolescente cerca il contatto col padre che si rivela però, all’inizio, conflittuale, poi aprirsi pian piano.

In uno dei suoi giri notturni, Pier incontra Granata - interpretato da Jerzy Stuhr, celebre attore feticcio di cineasti come Andrzej Wajda e Krysztof Kieślowski - un vecchio clochard aristocratico, esperto dell’arte “di arrangiarsi” raccattando avanzi. È proprio grazie a lui che l’uomo riscopre l’amore per la cucina e, forse, se stesso e per gli altri.
Uno dei meriti di Non morirò di fame - da oggi al cinema, distribuito da La Sarraz Pictures - è quello di aver portato in scena, con delicatezza ma incisività, il problema dello spreco alimentare. «Questo tema - ha dichiarato il regista - mi sta molto a cuore da sempre. Mai come in questo periodo il cibo e la catena alimentare della grande distribuzione sono diventati un business di proporzioni mastodontiche. Si produce per buttare. E si butta per produrre. Lo spreco nutre l’industria alimentare con una velocità mai vista prima d’ora».

C’è dignità nel modo con cui Pier e Granata vanno alla ricerca del cibo, proprio nell’istante prima che diventi rifiuto. «Il cibo, per lui, è sempre un piccolo gesto di poesia […] Andare a caccia del cibo che si butta diventa una missione», si legge nelle note di regia. Questo suo approccio diventerà anche un motivo di scoperta e dialogo tra padre e figlia.
Il lungometraggio di Spinazzola, toccando temi universali, non tralascia una funzione importante dell’arte: rilanciare domande. Proprio come nella vita vera, i protagonisti manifestano e/o riscoprono aspirazioni, che trasmettono l’energia necessaria per riscattarsi e costruire la propria strada, a seconda del vissuto e dell’età.

