Diritti

Parliamo di morte, ogni tanto

Questa settimana ho subito un lutto e, ogni volta che iniziavo a scrivere un articolo, mi ritrovavo con le mani piene di vuoto. Allora ho pensato di affrontare il tema della perdita e dei suoi costi. A volte fa bene
Credit: Matúš Kovačovský
Tempo di lettura 8 min lettura
15 febbraio 2023 Aggiornato alle 06:30

Così, si muore dall’oggi al domani, senza che niente cambi. Nulla si sposta di un centimetro, eccetto la vita di chi ha voluto bene alla persona deceduta. Lì, invece il vuoto occupa più di un centimetro. È lo spazio vuoto nel letto condiviso per anni, mesi, decenni. È una voce in meno quando si chiama a casa. Un “tanti auguri” perduto, un cumulo di abiti in meno nel cestello della roba sporca, un paio di scarpe che non saranno più lasciate in ingresso, un modo di parlare che mancherà, una storia personale che non verrà più recitata in prima persona.

La morte è una sottrazione alle vite di chi resta. Una serie cumulata di meno che risulta, per l’appunto, in un vuoto. E nel vuoto ci mettiamo di tutto, pur di non vederlo, pur non guardarlo e non sentirlo.

Negli anni ho fatto collezione dei modi di riempire degli altri, osservandoli. C’è chi ci svuota una boccetta di Xanax. Chi ci infila un dio e un paradiso intero. Chi ci mette tante lacrime, con irruenza. Chi ne sgocciola poche, con cura. Chi ci infila risate su risate. Chi ricordi, immagini e cose. Cose di materia che fanno scudo.

C’è chi si butta nella burocrazia delle cose da fare e da gestire. Per scoprire che quando muore un caro, la Chiesa ci vende il padre, lo Stato ci tende le scartoffie. Le eredità, che devono essere reclamate e stabilite in modo ordinato e veloce - anche il giorno stesso della morte - la banca e poi le pompe funebri. Decidere il legno da un catalogo, mentre i professionisti del lutto usano con navigata perizia tutti i termini giusti, quelli che io non ho imparato mai a dire.

Condoglianze: una parola contenitore, una scatola preconfezionata per gestire il vuoto di chi ci sta di fronte. Metterla lì, per offrire qualcosa. Viene da un figlio latino di dolo, cumdolo, che significa “soffrire con”. Il centro del verbo è la preposizione nel suo pieno senso della compagnia, della vicinanza. Dunque, condoglianze per soffrire con chi soffre. Insieme, quasi a dire che la moltiplicazione del dolore lo rende più solenne, quasi sacrale.

Il tuo dolore si propaga e avvolge gli altri, lo rende enorme, diffuso. Solo così un dolore è vero? E poi, davvero si riesce a soffrire “con” e non solo “per”? E se anche fosse, ma si soffre davvero quando muore qualcuno di caro ad altri? Non che si possa pensare che un professionista soffra sempre. Si può essere esperti a inchiodare bare e truccare cadaveri, ma esperti di dolore sarebbe davvero troppo.

Si può essere capaci di dire la cosa giusta e farlo bene, senza turbare ulteriormente l’afflitto che è rimasto qui, in un corpo di carne attivo. Si può imparare a capire chi ha bisogno di una stretta di mano e chi di un distaccato contegno. Forse si impara davvero il dolore degli altri e, quindi, a farne un’arte propria. Per minimo 1.500 euro a servizio, tasse comunali escluse.

La morte è un business, quasi è ridondante ammetterlo. Cado nel banale, me ne rendo conto. A modificare la cifra finale partecipano tante opzioni, tutte a listino: per esempio, tumulare, cremare o seppellire hanno costi differenti. La cassa poi, ha il suo valore: legna esotica, pregiata, trattata, verniciata o al naturale, con incisioni e intagli. Persino le maniglie costano di più. Poi, la salma deve essere imbellettata e vestita, per dare l’idea ai vivi che la persona possa apparire addormentata e coprire la nudità del corpo che in morte è inerte. Si chiama tanatoestetica, ed è l’ultima arte illusoria che separa i dolenti in vita dalla morte del compianto o della compianta.

E poi, non si vorrà mica non scegliere il colore della vettura funebre? A morire si va in perdita, poco ma sicuro. Infine, stanno i fiori: così delicati e morenti da risultare stucchevoli. Se posso, odio i fiori dei funerali. Con quei loro petali succosi, sempre più prossimi ad appassire. Metafore leggere come un chiodo in un piede. O in una bara.

Ebbene i funerali costano, e parecchio. Ma anche il mantenimento del luogo di sepoltura. E non solo in termini materiali, ma anche emotivi. Che gioia quando chiamano dai cimiteri per chiedere al parente in vita più prossimo se autorizza la spaccatura delle ossa per passare dalla sepoltura alla tumulazione e fare spazio. Avanti un altro. Perché se gli esseri umani offrono una garanzia di qualcosa, è proprio la morte.

Un manga raccontava che gli Shinigami (divinità della morte) potessero vedere il tempo della vita di ogni persona galleggiarle sulla testa a lettere di fuoco. Per fortuna certe cose non ci riguardano.

Però ce l’abbiamo una data di scadenza. E non ne parliamo mai. Il terrore della parola morte ci rincorre per tutta la vita. Guai a nominarla, guai ad ammetterla quando si presenta. Quanti eufemismi usiamo quando parliamo di morte, per attutire il lutto forse. In verità però, sono piccole scappatoie per prendere tempo. “Non c’è più”, “se n’è andata”. Uno spasso di fraintendimenti per chi, come me, prende le cose molto alla lettera.

Siamo dentro a questi modi di dire, ma forse troppo a lungo. Perché all’inizio va bene (a ognuno il suo modo di dire quello che riesce) ma alla lunga e su una vita intera, non riuscire a dire “morte” diventa un gioco a somma zero. Si ha così paura da finire preda di culti e guru pronti a risucchiare tutto, compreso il piacere di essere vivi. Potrei dire un’altra banalità, che e in effetti è vera. C’è persino chi ci ha costruito la legittimazione di un impero vendendo la vita dopo la morte.

Abbiamo talmente paura della morte da diventarne prede. Ai funerali, il terrore si vede negli atti finali, quando la funzione è finita. Sorvoliamo, per pietà, su quello che certi preti dicono. Su quel continuo richiamo al Padre e al suo disegno che, davvero, ma chi credono di confortare? Forse chi ha il terrore di pensare che la morte è l’arrivo nel niente.

Quando muore qualcuno a cui si vuole bene, si vede il vero volto di chi ci sta attorno. Si vede chi ci conosce e prova a capire come comportarsi: c’è chi sparisce, chi si incolla dove non dovrebbe; chi si pianta nel centro del discorso quasi fosse una cosa sua. C’è chi si spaventa e chi se ne frega.

Io, per dirne una, ho un problema. Mi viene da piangere quando sento la musica, qualunque sia. Perciò, ai funerali di chi non conoscevo molto bene mi piazzo in fondo, per evitare che, in caso mi scappasse una lacrima, questa prendesse uno spazio che non le spetta. Nello spazio ampio del dolore, infatti, il tempo degli altri dura poco. Stiamo vicino solo ai funerali e qualcuno nei primi giorni, poi chi si è visto si è visto e ognuno per sé. Perciò sarebbe doppiamente orribile rubare quel poco di terreno di attenzione. Una beffa.

Che poi, il vuoto, quello vero, arriva nei giorni normali. Quando iniziano a sentirsi le assenze nelle cose che mancano. Quando davvero a casa si è soli. Quando si ride e manca quel sorriso lì, mancano quei denti un po’ ingialliti dal fumo, ma così grandi e dritti. Quando non c’è più la zia che dice cose furbe e che sbuca con facce complici mentre si sorbiscono abbracci detestabili da parenti appiccicosi.

Rimangono le foto. Oggi è ancora possibile conoscere qualcuno la cui traccia fotografica non è infinita e digitale, ma limitata e lucida negli albi. Si possono ancora sfogliare. Le foto riempiono l’incertezza della memoria. Ma niente riempie la morte o cancella il vuoto. Perciò sarebbe anche ora di affrontarla, questa parola e di dirla. Perché si muore. E fa orrore. Dovremmo dirlo, raccontarlo e condividere il dolore naturalissimo che questa consapevolezza comporta.

Invece, ci limitiamo a sussurrarla e a farlo lontano dalle orecchie dei bambini. I bambini! Che invece imparano a masticare la parola e la tentano nelle conversazioni, la usano, e sentono l’effetto che fa. Gli adulti li guardano e reagiscono, con la loro idea della morte senza pensare per un istante che in quel momento hanno dato esempio di terrore e di ansia. Invece di spiegare la paura la propaghiamo agli altri. Da generazioni.

Si muore da un giorno all’altro, senza far mai troppo rumore. Quel bisbiglio con cui ce ne andiamo per alcuni è davvero assordante. Impariamo a vedere i vuoti e ad accoglierli, a rispettare quelli altrui invece di evitarli, quasi fossero contagiosi. Che poi la morte mica è uguale in tutto il mondo. Si muore, certo, ma in modi diversi. In Italia, si può sperare di vivere almeno fino a 82,34 anni; in Chad fino ai 52,78.

Ci sono luoghi dove si muore di usura, altri in cui si muore di malattie curabili solo perché si è poveri, quasi fosse una colpa. E ancora: a seconda di dove questo nostro corpo ha assorbito la propria cultura, cambia il modo di parlare e di vivere la morte. Qui in Italia, è nera e drammatica e dolente. Nascosta ma poi improvvisamente gridata. Se poi genera vedovanza femminile, c’è ancora chi si immola al defunto fino alla fine dei suoi giorni, con un velo nero in testa e il divieto di tentare altri amori.

La sacrale riverenza per i morti. Tutti pii e santi da defunti, per scaramanzia e per timore meschino che un giorno qualcuno, sulla nostra tomba, si ricordi che per tutta la vita non siamo state brave persone. Perciò fingiamo, nella pantomima della morte come ultima redenzione, incubo supremo a metà tra la paura di morire di quella di essere ricordati per chi siamo stati.

Parliamo di morte, ogni tanto. Così per dirci la verità, almeno tra noi. E magari, imparare a dire qualcosa di vero - anche tacendo - che non sia quell’arido “condoglianze”.

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