Diritti

Cancro: nessuno può giudicare la paura

Eppure tutti parliamo del seno in termini scientifici. Solo scientifici. E tuttavia se cerchi un medico con cui confrontarti, in termini umani…
Credit: ANSA/ Andrea Fasani

L’ultima telefonata, pochi giorni fa. Un’amica molto cara mi racconta una storia che stride rispetto alla narrativa dominante del cancro al seno. Sua sorella, poco sopra i quaranta, nessun caso in famiglia, mammografia fatta tredici mesi prima, ecografia sei mesi prima va a fare un controllo mammografico (di sua sponte, non è previsto screening a quell’età) e le trovano due tumori di oltre dieci centimetri in entrambi i seni, stadio tre-quattro, operazione immediata e asportazione del suo bellissimo e grande seno. Ora è in attesa di sapere se la malattia ha coinvolto o no altri organi. Ha due figli piccoli.

Faccio fatica a riprendermi dal dolore e anche, soprattutto, da un totale disorientamento che assomiglia a uno choc. Perché la storia della sorella di E., appunto, non coincide con la retorica del “dal tumore al seno si guarisce quasi sempre”, dalle maratone rosa e da altri messaggi all’insegna dell’ottimismo. Come non coincide con questa narrativa la storia di R., anche lei con figli, piena di vita, una macchina da guerra: dopo qualche anno di guarigione, una drammatica recidiva che fa sprofondare lei, la sua famiglia e tutti noi che le siamo vicino nella disperazione. E poi ancora L., un tumore trovato mentre allattava, quando i medici dicono che l’allattamento protegge dal tumore al seno. Oppure M., che ha trovato un tumore molto esteso e grave proprio durante una mammografia. Alla faccia della diagnosi precoce.

In vita. Ma sempre con la paura

Chiariamo subito, anzi immediatamente: le maratone rosa sono importanti e belle, la percentuale di guarigione dal cancro al seno è molto alta, l’ottimismo degli scienziati è legittimo rispetto ad altri tumori e al fatto che esiste la possibilità della diagnosi precoce, che dunque va fatta assolutamente. Ma la statistica ci racconta anche un’altra storia: e cioè che numericamente una donna su otto si ammala nella sua vita di tumore al seno. E che su cento donne che si ammalano, ottantacinque ce la fanno ma quindici no.

Queste statistiche inoltre nulla dicono della qualità dell’esistenza di chi è comunque in vita. Sono donne che vivono nell’incubo della recidiva, che a volte arriva, anche moltissimi anni dopo. Sono donne che comunque hanno dovuto affrontare terapia devastanti come la chemioterapia, mastectomie anche totali, a volte anche asportazione di tutto l’apparato riproduttivo. Non so se sia davvero vita quella di chi si è ammalato gravemente, e mentre lo stato dopo cinque anni ti considera guarita e ti toglie tutti i benefici economici e sociali, tu continui a vivere nella paura.

Un immaginario ormai stereotipato

Il cancro al seno ha segnato la nostra generazione. Tutte, ammalate, guarite, non ancora ammalate, sane siamo profondamente scioccate da questo cancro che distrugge esistenze vicine e tante. Nessuna si sente davvero protetta, tutte sappiamo che potrà capitare a noi. Conosciamo la trafila, ce l’hanno raccontata mille libri, film, opuscoli, storie su Facebook. Un pallino nel seno, la corsa al controllo, la scoperta del tumore, il turbante o la parrucca, la chemio, la speranza che sia andato via, la vita dopo. È una sequenza che si attiva immediatamente nella nostra mente quando parliamo di questo tema, o quando mancano pochi giorni dall’ennesimo controllo.

Due cose non vengono, a mio parere, abbastanza dette: la prima, è quanto questo tumore sia particolarmente devastante per una donna. La perdita dei capelli è qualcosa di umiliante, non a caso le religioni più violente verso le donne i capelli li tagliano o li nascondono. Una amica mi ha raccontato che mentre aspettava di sapere se avrebbe dovuto fare la chemio, per fortuna oggi un esame del sangue consente una distinzione maggiore, la sua più grande paura era di farsi vedere senza capelli davanti alla figlia. La capisco. E poi c’è la mutilazione del seno, che sia uno, entrambi. Nessuna ricostruzione potrà ricostruire un’intimità lacerata.

Mammografia, esame invasivo e anche disumano

La seconda cosa che nessuno dice è che la prevenzione da un lato funziona molto bene, dall’altro per niente. Mi spiego. Ormai sappiamo tutte cosa dobbiamo fare. Ma non tutte lo fanno, spesso per paura, per terrore. A volte, anche, per soldi, perché una mammografia fuori dallo screening costa almeno cento euro e un’ecografia almeno settanta. Quasi duecento euro all’anno.

Finalmente alcune regioni cominciano ad abbassare l’età dello screening, ma il dibattito è controverso. Non ho capacità scientifiche per intervenire, ma conoscono troppe quarantenni ammalate di tumore al seno. La mia ginecologa mi ha fatto cominciare da 38 ed è comunque un medico. Dunque questo è un messaggio contraddittorio che riceviamo e non va bene.

Ma non hanno paura solo quelle che poi la prevenzione non la fanno, ma anche quelle che invece la fanno. Perché la mammografia è un esame assolutamente impersonale, invasivo, anche violento se fatto a freddo. Ci si reca in un ospedale o laboratorio, ci si spoglia, il seno viene schiacciato con ogni forza in ogni lato, poi si aspetta il responso. Se è positivo si esce solo per dimenticare tutto per un anno. Racconto un aneddoto: genericamente, il referto non si ha subito, ma dopo qualche giorno. Quindi si deve tornare a prendere il referto. Io mi scordo sistematicamente, vado dopo qualche mese.

Una volta una addetta del laboratorio mi ha detto che non sono l’unica, che lo fanno tutte.

Il che significa che siamo tutto angosciate. Che odiamo questo esame, così invasivo, così impersonale. Quando vado io chiedo sempre alla dottoressa di poter parlare prima. Le chiedo di visitarmi, toccarmi, darmi una prima rassicurazione. Non sono una macchina sono un soggetto. Una persona.

Seno, da strumento di piacere a fonte di rischio

Ovviamente, qui il discorso sarebbe lungo. Tutta la medicina di oggi è disumana. Gran parte della prevenzione e della diagnosi precoce lo sono, raccogliere feci e metterle in frigo per l’esame del colon non è bello né è bella una colonscopia, per dire. Ma la mammografia, io trovo, e in generale i controlli al seno portano con sé emozioni diverse. Per la paura, ovviamente, il tumore è diffusissimo, e perché le conseguenze sulla femminilità sono tremende.

Talmente ormai siamo segnate da questo tumore che certe volte penso che sarebbe meglio un’asportazione preventiva, come quella che fanno alcune donne che risultano positive a una precisa mutazione genetica, come Angelina Jolie. Tanti anni fa scrissi un articolo dicendo che non la capivo, oggi mi scuserei mille volte. Lo farei anche io e pure senza essere positiva alla mutazione. Il cancro al seno ha ridotto il nostro seno, appunto, da uno strumento di piacere, o di nutrimento per chi ha la fortuna di allattare, a un possibile pericolo, a una fonte di rischio, di morte.

Ho delle amiche che mi raccontano che hanno paura persino a farsi toccare mentre fanno l’amore, non sia mai che l’altro senta qualcosa. A questo proposito, l’invito dei medici a toccarsi sotto la doccia lo trovo assurdo. E chiedendo in giro, so di tantissime persone che non lo fanno. Non lo faccio neanche io. Non potrei scoprire un tumore da sola, sotto la doccia, nuda. Non siamo macchine.

Mangiamo verdure, facciamo sport, non fumiamo: eppure ci ammaliamo

Ecco perché, io credo, bisognerebbe cambiare l’approccio. Vanno bene le maratone, va bene dire che siamo forti, che noi sconfiggiamo il cancro, che lottiamo. Ma andrebbe detto anche che, invece, noi abbiamo tantissima paura. Che ci sentiamo vulnerabili. Che conosciamo troppe storie di dolore per non essere preoccupate. Che la diagnosi precoce così com’è non ci piace. Che vorremmo degli studi medici dove poter, anzitutto, parlare, condividere i nostri timori e terrori. Che vorremmo medici con cui poter parlare ancor prima di macchine che ci spremano i seni con violenza.

Poi facciamo i compiti, come sempre, prendiamo appuntamenti, chiamiamo per sapere se la macchina che fa la mammografia è digitale, di ultima generazione. Ma non è questo che di dà speranza. Né ci consola dalla scia di madri con tumore, donne con recidive, operazioni mutilanti e capelli perduti.

Non sappiamo neanche perché ci ammaliamo, noi che mangiamo frutta verdure e cereali integrali, facciamo sport, non fumiamo, portiamo reggiseni un po’ più larghi perché sappiamo che il ferretto fa male. È possibile che ciò non basti, che l’inquinamento intorno ci stia distruggendo, come tanti studi ormai riportano.

E allora va benissimo la ricerca, sacrosanta, ma un altro approccio sarebbe necessario. Forse anche una riflessione sul nostro folle stile di vita, sulle nostre mostruose vite cittadine. Non è retorica. È possibile che in un mondo meno inquinato, meno surriscaldato, con meno pesticidi e veleni saremmo più sane. Ovviamente, cambiare è difficile, ma esserne almeno consapevoli è possibile. Corriamo dunque le nostre maratone, cerchiamo medici che ci aiutino e che siano più umani, condividiamo di più il dolore che tutte stiamo vivendo. Ammettiamo di avere paura e magari alla prossima mammografia facciamo accompagnare da una madre, un’amica, qualcuno, non andiamo sole. Sarà già qualcosa di importante.

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