Diritti

Un milione di italiani sono guariti dal tumore, ma ancora discriminati

Si chiama oblio oncologico: è il diritto degli ex pazienti di non essere più identificati con la malattia. In banca, nei tribunali. E davanti alla legge
Tempo di lettura 5 min lettura
23 gennaio 2022 Aggiornato alle 15:00

Essere guariti da un tumore ma ugualmente discriminati. Se ne parla poco in Italia, eppure molte persone, oggi, sono ancora vittime di discriminazioni legate a una malattia pregressa, ormai passata. A parlare non sono solo le testimonianze ma anche i numeri: nel nostro Paese sono 3,6 milioni le persone che hanno avuto una diagnosi di cancro, di questi, il 27% – circa 1 milione – può essere considerato guarito. Per molti di loro richiedere mutui, prestiti, assicurazioni e adozioni ancora non è facile.

Per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni, Fondazione AIOM, Associazione Italiana Oncologia Medica, ha lanciato la campagna “Io non sono il mio tumore” e una raccolta firme per richiedere una legge che tuteli chi viene discriminato. Tra gli esempi virtuosi citati da AIOM, quelli di Francia, Lussemburgo, Belgio, Olanda e Portogallo, che negli ultimi 2 anni si sono attivati per dare vita a una legge che garantisca agli ex pazienti il diritto a non essere rappresentati dalla malattia e a non subire discriminazioni. Riconoscere il diritto all’oblio, non per cancellare i dati sanitari ma per non essere obbligati a dichiarare di aver avuto una malattia a 5 o 10 anni dalla guarigione. Sul portale dirittoallobliotumori.org è possibile aderire alla campagna: raggiunte le 100.000 adesioni la Fondazione AIOM chiederà al Presidente del Consiglio l’approvazione della legge.

“Bisogna pensare a chi è più fragile, a chi non ha un immobile, a chi non ha garanzie: il paziente oncologico viene ancora visto come il malato di 15 anni fa, invece la qualità della vita è cambiata”. Francesca Maria Montemagno, imprenditrice, co-founder e managing partner di Smartive, società di consulenza dedicata alla trasformazione digitale, racconta a La Svolta la sua testimonianza. Nel 2007 la diagnosi di un linfoma a uno stadio avanzato arrivata con 6 mesi di ritardo, a una settimana dalla biopsia aveva già iniziato le terapie: “Ho continuato sempre a lavorare dicendo a chi era intorno a me di trattarmi come qualsiasi altra persona, ma non è stato così” spiega Francesca Maria. Grazie ai percorsi formativi e lavorativi, Francesca non ha incontrato problemi dal punto di vista creditizio, diversa la situazione per la copertura assicurativa e per un’eventuale adozione: “Dopo il tumore stipulare un’assicurazione non è stato semplice, essere stato in cura ti mette nella situazione in cui vuoi poter accedere a più esami diagnostici nel minor tempo possibile, i premi cambiano, i prezzi aumentano, devi essere pronto a fare delle rinunce, ma se sei fragile non è semplice”. Oggi Francesca non può avere figli e in questi anni non ha intrapreso un percorso di adozione: “Formalmente nessuno ti dice che non puoi farlo” puntualizza, “ma dopo aver parlato con persone che hanno sostenuto un percorso oncologico, non avevo voglia di espormi. E alla fine ho deciso che non era per me la soluzione”.

Nonostante la diagnosi pregressa di tumore non è di per sé motivo di non idoneità all’adozione (poiché anche una persona malata o disabile può essere ritenuta idonea), durante la lunga e complessa procedura “è probabile che al genitore con diagnosi pregressa di tumore vengano richiesti maggiori accertamenti sanitari ovvero incontri più lunghi e frequenti con lo psicologo” spiega l’avvocato specializzato in adozioni Michela Scafetta. “Lo scopo è quello di scongiurare il pericolo di un rischio concreto e attuale per la sopravvivenza del genitore. Il Tribunale esamina la documentazione allegata alla domanda di adozione e, nel caso di genitori con diagnosi pregressa di tumore, tiene in giusta considerazione la relazione dello psicologo incaricato e la documentazione medica eventualmente richiesta a integrazione di quella presentata con la domanda di adozione”.

Una questione psicologica, quindi, davanti a un evento considerato per molti un trauma: nel 2017, secondo uno studio pubblicato su Cancer, il giornale dell’American Cancer Society, un terzo (34%) dei pazienti guariti che avevano sviluppato un disturbo da stress post-traumatico, risultavano soffrirne addirittura 4 anni dopo.

“Nella mia esperienza da avvocato che si occupa di adozioni, non mi sono mai trovato davanti a una coppia discriminata dal Tribunale dei minori perché uno degli aspiranti genitori è stato precedentemente malato di tumore” sottolinea a La Svolta l’avvocato Domenico Busco, il quale spiega la complessità degli incontri preliminari con gli psicologi e la possibilità che il trauma del tumore possa comunque rappresentare un problema ai fini dell’adozione.

Per i mutui, la situazione è differentemente articolata. Se sulla carta la banca non chiede una cartella clinica per la stipula, ma solo documenti economico-patrimoniali, può essere talvolta collegata al mutuo un’assicurazione. Seppur non sia obbligatoria, in alcuni casi, la copertura assicurativa fa riferimento anche a questionari riguardanti il proprio screening medico: a questo si aggiunge il fatto che anche il mondo finanziario, oltre a calcoli matematici, si avvale di tabelle attuariali dove entra in gioco l’età, e quindi la speranza di vita. In questo caso le malattie, anche quelle pregresse, rientrano come un problema. A spiegarlo a La Svolta, un esperto del settore bancario, il quale chiarisce che non ci sia comunque un obbligo di calcolare i rischi dalla parte degli istituti di credito, sia quelli finanziari che quelli attuariali.

Il diritto all’oblio oncologico permetterebbe a quasi 1 milione di italiani guariti di non essere più considerati malati oncologici dopo 5 anni dalla fine delle cure, se il tumore è insorto da bambini, e dopo 10 se insorto da adulti. Una svolta di cui tutti avremmo bisogno.