Diritti

Coercizione riproduttiva: che cos’è?

La restrizione della libertà di scelta delle donne sul proprio corpo e sulla propria autonomia riproduttiva non è un fatto di natura. È una scelta, e una violenza
Credit: cottonbro studio  

Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 6 min lettura
13 marzo 2024 Aggiornato alle 13:00

10 marzo 1971: i contraccettivi diventano legali in Italia. 22 maggio 1978: il Parlamento approva in via definitiva la legge 194, che permette l’aborto nei casi previsti. 19 febbraio 2004: il ricorso alla procreazione medicalmente assistita diventa legge.

Se guardassimo solo alla Gazzetta Ufficiale, dovremmo dedurre che ormai da anni in Italia le donne possono decidere se, come e quando diventare madri. Eppure la realtà è molto lontana da quello che i Codici potrebbero farci credere. 77% di medici obiettori, proposte di far ascoltare il battito per accedere all’Ivg, ostacoli alla Pma, dietrofront per la pillola gratuita per tuttǝ… la lista potrebbe essere lunghissima.

Allargando lo sguardo oltre i confini le cose non vanno meglio: per una vittoria storica come l’introduzione dell’aborto nella Costituzione Francese, le sconfitte sul fronte dei diritti riproduttivi delle donne non conoscono lingua, né nazionalità. Basta guardare la “terra della libertà”, gli Usa del post Roe vs Wade, in cui una delle dell’Alabama ha riconosciuto gli embrioni criocongelati come “bambini” e le gravidanze a seguito di stupri negli Stati anti-choice sarebbero già 65.000.

La restrizione della libertà di scelta delle donne sul proprio corpo e sulla propria autonomia riproduttiva non è un fatto di natura. È una scelta, e una violenza.

Si chiama “coercizione riproduttiva”, che una literary review del 2018 definisce come ogni “comportamento che interferisce con il processo decisionale autonomo di una donna, per quanto riguarda la salute riproduttiva. Può assumere la forma di sabotaggio contraccettivo, coercizione della gravidanza o controllo dell’esito di una gravidanza”.

Si tratta, secondo il Parlamento Europeo, di una delle forme della violenza di genere. Nella risoluzione adottata il 16 settembre 2021 (“recante raccomandazioni alla Commissione concernenti l’identificazione della violenza di genere come nuova sfera di criminalità tra quelle elencate all’articolo 83, paragrafo 1, Tfue), il Parlamento Ue “sottolinea il fatto che la coercizione riproduttiva e la negazione di un’assistenza all’aborto sicuro e legale costituiscono anch’esse una forma di violenza di genere; sottolinea che la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata in diverse occasioni stabilendo che le leggi restrittive sull’aborto e la mancata attuazione violano i diritti umani delle donne; sottolinea che l’autonomia delle donne e delle ragazze e la loro capacità di prendere decisioni libere e indipendenti riguardo al loro corpo e alla loro vita sono condizioni indispensabili per la loro indipendenza economica, per l’uguaglianza di genere e per l’eliminazione delle violenze di genere; condanna con vigore gli attacchi ai diritti delle donne e alla parità di genere nell’Unione, in particolare il regresso riguardo alla salute sessuale e riproduttiva delle donne e ai diritti connessi e il divieto di fatto di un aborto sicuro e legale in Polonia”.

Accanto alle forme di violenza “istituzionale” ci sono però tutte quelle forme di coercizione riproduttiva che fatichiamo ancora a riconoscere come abusi e violenze.

Come lo stealthing, la pratica di togliere il preservativo (o danneggiarlo) durante l’atto sessuale senza il consenso dell’altra persona, esponendola al rischio di gravidanze indesiderate o malattie sessualmente trasmissibili, e che è considerata una forma di violenza sessuale o stupro. Questo può avvenire anche in maniera passiva, quando la persona che indossa il preservativo non sa che è stato manomesso.

Siamo così poco abituati a immaginare che forzare il sesso non protetto o il concepimento sia un atto di violenza che non riusciamo a vederlo come tale nemmeno quando è palese davanti ai nostri occhi: lo dimostra il caso del successo planetario Bridgerton, in cui un atto di coercizione riproduttiva – in altre parole: uno stupro – è stato per lo più ignorato da gran parte del pubblico e dei commentatori, senza che l’atto in sé fosse ritenuto quantomeno moralmente dubbio.

Non sorprende, quindi, che riconoscere la coercizione riproduttiva nelle sue manifestazioni quotidiane sia così difficile. Eppure, accade più spesso di quanto immaginiamo: non ci sono dati globali, ma secondo alcuni studi le stime di prevalenza variavano dall’8 al 16% delle popolazioni studiate.

Impedire a qualcuno di utilizzare (o smettere di utilizzare) metodi contraccettivi, mentire sull’utilizzo di contraccettivi o sulla propria capacità di concepire o attuare quello che viene definito “sabotaggio contraccettivo”, impedire di accedere all’interruzione volontaria di gravidanza o al contrario spingere ad abortire una persona che non vuole farlo, forzare una persona a intraprendere una gravidanza.

Tutte azioni che non avvengono esclusivamente sotto il peso di minacce o violenze fisiche ma spesso di una manipolazione e ricatti psicologici che ignorano e travalicano il consenso, normalizzate e in alcuni casi socialmente incentivate.

“Come altre forme di violenza contro le donne, la coercizione riproduttiva assume manifestazioni socialmente accettate - e addirittura culturalmente auspicate - non percepite come sopruso da chi le subisce”, ricordava Ilaria Maria Dondi nel suo Libere di scegliere se e come avere figli. Aprendo uno spaccato su una manifestazione della coercizione riproduttiva ancora troppo ignorato: quello delle donne che non riescono a concepire naturalmente e che sono forzate non solo dal partner – “che agisce sulla compagna una forte violenza a livello psicologico, verbale e/o fisco, ma anche economico” – ma anche dalla famiglia del partner o della vittima, o dalla comunità, a sottoporsi a lunghi ed estenuanti percorsi di fecondazione assistita spinte da “una volontà riparatoria nei confronti dell’uomo che, secondo il pensiero introiettato, ci ha prescelta a sposa e a madre dei suoi figli”.

Senza dimenticare le forme più estreme di questa violenza, che colpiscono soprattutto chi è più vulnerabile: come la sterilizzazione forzata, una forma di violenza ostetrica e di genere che è ancora una agghiacciante realtà per tantissime donne e ragazze con disabilità in Europa (almeno 14 Stati membri dell’Ue consentono ancora alcune forme di sterilizzazione forzata nella loro legislazione) e nel mondo, ma che colpisce e ha colpito le donne nere, indigene, rom e sieropositive, sulla base di convinzioni che, dice una Risoluzione Onu del 2019, ritengono che le donne appartenenti ad alcuni gruppi minoritari “non siano adeguate alla procreazione o siano incapaci di realizzare decisioni responsabili in relazione alla contraccezione o non siano considerate “buone madri” o che la loro prole non sia desiderabile”.

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