Culture

Libere di ripensare la maternità oltre gli stereotipi di genere

Il libro di Ilaria Maria Dondi, Libere di scegliere se e come avere figli, ribalta la prospettiva sulla genitorialità, sfidando l’inscalfibile binomio donna - madre
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28 febbraio 2024 Aggiornato alle 19:00

“Perché fai figli?”. Nessuna si è mai sentita porre questa domanda. Il femminile è voluto: agli uomini non si chiede mai se hanno figli o se li vogliono e non si indagano, per abbatterli uno a uno, i motivi di un’eventuale rinuncia alla paternità. Per le donne è diverso.

“La madre di tutte le domande” è forse l’elemento che, più di altri, accomuna l’esperienza dell’essere donna. Ce lo chiedono continuamente, da quando abbiamo l’età che la società ritiene appropriata, e continuamente ci chiedono di giustificarci, spiegare perché non vogliamo riprodurci e se (e soprattutto quando) avremo la decenza di correre ai ripari.

“Perché invece non partire interrogando il nostro desiderio attivo di maternità: perché hai (voluto) figli?”. A ribaltare la prospettiva è Ilaria Maria Dondi, nel suo Libere di scegliere se e come avere figli, pubblicato da Einaudi (176 pagine, 15€), che esplora e decostruisce l’idea di maternità granitica e inscalfibile che ci è stata tramandata per restituirci un caleidoscopio di esperienze, istanze, domande e spunti. Sfidando l’altrettanto inscalfibile binomio donna-madre per ripartire da quello che c’è dietro i ruoli, gli stereotipi, le narrazioni universali che schiacciano la molteplicità dei vissuti.

Madri, non madri, madri mancate, madri in potenza. È la nostra capacità generatrice e più spesso la volontà o meno di abbracciarla a definirci, al punto che se non ci riproduciamo dobbiamo indirizzare la nostra “innata” maternità su qualcos’altro: nipoti, progetti, una carriera di successo che ci riscatti dall’essere genitrici mancate. Come se essere semplicemente donne non fosse abbastanza.

Basta pensare che, ci ricorda Dondi, nella nostra lingua non esiste nemmeno un termine per indicare questa creatura misteriosa: la donna senza figli. Sempre più spesso si stanno affermando termini anglosassoni, come childless (per chi non ha potuto avere figli) e childfree (chi non li ha voluti), ma che non bastano.

Dondi smonta uno per uno gli stereotipi che imprigionano le donne in una maternità univoca, universale, giusta per tutte e per nessuna: “E se poi te ne penti?”, “Non sai cosa ti perdi”, “Puoi lavorare e coltivare le tue passioni anche se hai un figlio”, “E il tuo partner cosa dice?”, “Tic tac: non senti l’orologio biologico?”, “Quindi non ti piacciono i bambini”, “Un figlio è una benedizione”, “Pensa a quelle che non possono”, “Ormai non fare figli è una moda”.

Stereotipi che non solo escludono la possibilità che quella maternità non sia desiderata o realizzata, ma anche l’infinita varietà di sfumature di cui la maternità si colora, una per ogni persona che diventa madre. Non le mamme perfette che vogliono farci credere di dover essere (e molte lottano ancora per conformarsi a questa visione), ma persone carenti, imperfette, desideranti, altalenanti, diverse come diversǝ è ciascunǝ di noi.

Soprattutto, però, Libere ci mette davanti (svelandoceli) tutti quei bias e quelle trappole in cui ognunǝ di noi continua a cadere, quei pregiudizi così radicati da sembrarci “innati” come quell’istinto materno che continuiamo a evocare, forse per renderlo reale quando sappiamo che non lo è. Genitorialità che sfidano il modello eteropatriarcale, gestazione per altri, fertilità: temi che pensavamo di conoscere e che invece vengono esplorati da prospettive nuove e, per utilizzare un termine calzante, estremamente feconde.

A rivelarsi sono anche termini (e altrettante esperienze) che moltǝ potrebbero non aver mai incontrato ma che che meritano attenzione: coercizione riproduttiva, in cui anche un percorso di fertilità può farsi violenza, capitalismo riproduttivo, donne intere e donne senza utero.

Assieme alle pagine scorriamo un inventario di donne sbagliate, innaturali. Non solo quelle che la società condanna perché rifiutano di aderire al loro ruolo naturale, ma anche quelle che, invece, vengono stigmatizzate perché quella maternità la desiderano ma fuori dai canoni eteropatriarcali che l’hanno resa una gabbia da cui sembra impossibile uscire per chi c’è dentro ed entrare per chi è fuori: madri adottive, lesbiche, giovani, anziane, single, depresse, con disabilità, femministe.

E poi ci sono le madri cattive, quelle che abortiscono e sono felici, quelle che optano per la sterilizzazione, che scelgono il parto in anonimato o affidano i neonati alle culle per la vita e quelle “mostruose”: che sono altrove, lontane da quei figli quando invece secondo la società dovrebbero stargli accanto a ogni costo, che si pentono di essere diventate madri, le infanticide e le madri trans, disprezzate e rifiutate con violenza come “devianza e marchio d’infamia di una società degenerata”.

Quella che emerge è una potente e liberatoria riflessione non solo su cosa significhi essere madre o non esserlo, ma soprattutto su cosa significhi essere persone prima che madri e uno sguardo estremamente lucido e analitico sulle barriere sociali, economiche, culturali e razziali che ci impediscono di scegliere quello che vogliamo davvero per noi stesse.

E ci lascia con una consapevolezza che dovrebbe essere patrimonio condiviso, ma che spesso dimentichiamo: “Le nostre vicende riproduttive sono solo un pezzo della nostra identità, non sempre la più importante”. Dimentichiamoci i ruoli, le opposizioni, la guerra tra donne su posizioni opposte delle barricate riproduttive. Ripartiamo da noi, e facciamolo insieme. Per essere un po’ più libere, tuttǝ.

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