Culture

Donne, non madri

Un anno di confronti e scontri sulla libera scelta della (non) maternità. Nel libro di Simonetta Sciandivasci un coro di voci rispondono, ognuna a modo suo, alla domanda “è davvero possibile non volere figli?”
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
20 dicembre 2022 Aggiornato alle 21:00

«Io non voglio figli. Ho trentasei anni e abbastanza soldi per mantenerli. Ma non mi interessa, tutto qui». Comincia da questa frase il libro curato da Simonetta Sciandivasci, responsabile cultura de La Stampa, edito da Mondadori (18 euro, 216 p.). Non in senso letterale: queste non sono le parole che aprono il libro, ma quelle che hanno dato il via alla storia che ne è stata genesi e ragione.

Quelle parole, pronunciate durante una riunione di redazione, infatti, sono state il primo embrione – un termine che sembra quanto mai calzante – di un articolo e delle reazioni che quell’articolo ha generato, del dibattito che ha risuonato per settimane sulle pagine del quotidiano e sui social e che ha avuto al centro un tema di cui continuiamo a parlare ma di cui difficilmente riusciamo ad arrivare alla radice: i figli.

I figli e, soprattutto, le madri. O, per meglio dire, le non madri. Quelle donne che sono – ci dice l’Istatil 5% della popolazione e che, semplicemente, non vogliono figli. Senza drammi, senza storie di brucianti desideri irrealizzati o di eterno precariato emotivo ed economico: non vogliono figli, e basta.

Una visione del mondo e della vita inaccettabile per moltǝ, almeno stando ai tantissimi commenti che I figli che non voglio l’articolo di Sciandivasci pubblicato in gennaio – in cui rivendicava di far parte di quel bistrattato 5% – ha ricevuto. Commenti offensivi, feroci, violenti. Perché come si può immaginare una donna che abiura al suo ruolo naturale senza dolore? Ce lo insegna il modo in cui si parla dell’aborto: “una donna, per essere credibile, per essere ascoltata, deve essere addolorata”.

E invece queste donne addolorate non lo sono. Stanno bene così, e basta. E, del resto, come se il dolore di tutte quelle persone che lottano disperatamente per un figlio che non arriva fosse davvero accolto e servisse per alleggerire il percorso a ostacoli chi incontra ancora oggi chi vuole adottare o sottoporsi alla fecondazione assistita.

Non riusciamo ad accettare che le donne non vogliano figli e che il motivo sia solo questo: non li vogliono. Forse perché, come ricorda Carlotta Vagnoli nel suo intervento Mater semper certissima est, “il mondo non è pronto ad accogliere la pluralità del concetto di maternità perché non lo sa leggere come processo individuale. Lo intende bensì come missione del genere umano tutto”.

Dei figli, in fondo, parliamo periodicamente per denunciare la loro diminuzione – il famoso allarme denatalità – per usarli come spauracchio contro qualcosa che non ci piace – “qualcuno pensi ai bambini” – o, ultimamente, anche perché i loro celebri genitori hanno deciso di farne uno degli elementi loro strategia di marketing e quindi riempiono i feed dei nostri social e, conseguentemente, le home dei quotidiani che sfogliamo. Non ne parliamo mai davvero.

Desiderati, non voluti, abortiti, ostenduti, disperatamente cercati o evitati, serenamente mancanti: nel dibattito che si è poi riversato nelle pagine che compongono questo libro, invece, i figli sono catturati nella molteplicità delle voci che compongono l’esperienza umana. Una molteplicità che è irriducibile a una lettura universale.

A raccontarli sono madri felici, madri mancate, madri single, madri “cavalle”, non madri felici e donne che “non saranno mai chiamate mamma”, madri agnostiche, madri in potenza e anche alcuni papà, in un caleidoscopico ritratto corale che rende plastica e palpabile l’affermazione di Nadia Terranova, autrice del brano Sta per nascere mia figlia, io le regalerò l’universo e lei me lo spiegherà, “non esiste la maternità, esistono le maternità, plurali, tante quante siamo, anzi di più”.

Quello di aprire uno spaccato sul tema delle maternità e del modo di essere madre o non esserlo, però, non è l’unico merito di questo libro, e del dibattito che l’ha generato. Quella frase nata in una riunione di redazione, quell’articolo che tanto livore ma anche tanta riflessione ha scatenato, mostrano – in un’epoca il cui i media sono, spesso giustamente, sotto processo – il potere del giornalismo. Che non è solo quello di raccontare quello che accade intorno o lontano da noi, né di farsi megafono.

A cosa servono i giornali?” si, e ci, chiede Scandivasci quasi in chiusura del libro. “A tutto”, risponde. “Nei giornali succedono le cose. Il mondo sta lì. Una cosa esiste quando ha un nome, una parola che la indica, e un fatto succede quando un giornale ne scrive. È questo a rendere tanto complesso e delicato questo mestiere, a farne l’artigianato della scelta che è e che sarà sempre, a renderlo invincibile”.

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