Diritti

L’Italia ha un problema con la fecondazione assistita

Nella Penisola, accedere alla procreazione medicalmente assistita rimane un miraggio per tante, troppe, coppie. A meno che non siano disposte a sborsare migliaia di euro alle cliniche private
Credit: Dainis Graveris/Unsplash
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 6 min lettura
2 agosto 2022 Aggiornato alle 07:00

L’allarme sulla denatalità – “il virus del terzo millennio” – risuona periodicamente. Ci dicono che non facciamo abbastanza figli, condannando il Paese non solo a un progressivo invecchiamento ma anche alla crisi del sistema previdenziale e di quello sanitario, solo per fare due esempi fra tanti dei rischi che il calo delle nascite comportano.

Eppure, chi i figli li vuole e non può averli deve ancora affrontare un percorso a ostacoli. Anche se la Corte Costituzionale ha tolto molte delle limitazioni contenute nella legge 40, infatti, accedere alla procreazione medicalmente assistita è ancora un’impresa per tantissime coppie (e coppie soltanto, visto che tutti gli altri sono esclusi a priori), a meno che non si abbiano a disposizione migliaia di euro per rivolgersi alle cliniche private.

Una situazione su cui impatta anche la crisi di governo: dopo oltre 5 anni dall’approvazione dei nuovi LEA, i Livelli Essenziali di Assistenza, ancora oggi molte persone non possono accedervi perché manca il decreto che definisce le tariffe delle prestazioni specialistiche ambulatoriali, tra cui proprio la fecondazione assistita. Il provvedimento era in corso di approvazione ma probabilmente diventerà lettera morta con la caduta del governo.

Cosa dice la legge

Secondo le statistiche, il 20% delle coppie ha difficoltà a concepire naturalmente. Parliamo di una su cinque, in un momento in cui il numero di figli continua drasticamente a calare.

Verrebbe da pensare che un Paese che ha lanciato gli “Stati Generali della Natalità” e che solo pochi anni fa ha diffuso un opuscolo – criticatissimo – in occasione del “Fertility Day” fosse in prima linea per assicurare a quanti più cittadini possibili l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Invece, non è così.

La legge 40/2004 è nata come una delle leggi più restrittive in materia di procreazione assistita.

Nella sua formulazione originaria, poi smontata da diverse sentenze dei giudici, la legge imponeva grandi limitazioni a cittadini e operatori, regolando in particolare il numero di cicli massimi e il numero di embrioni impiantabili, riducendo di fatto le possibilità di successo.

Nel 2005, in occasione del referendum, l’80% dei votanti si era espresso a favore della rimozione delle limitazioni, ma non era stato raggiunto il quorum.

Nel 2009, la sentenza della Corte costituzionale n.151 ha cancellato il divieto di produzioni di più di tre embrioni e di contemporaneo impianto di tutti gli embrioni prodotti.

Negli anni successivi, altre tre sentenze hanno eliminato il divieto di diagnosi pre-impianto per le sole coppie infertili, il divieto di eterologa e di accesso alle coppie fertili ma portatrici di patologie genetiche. Rimangono in vigore il divieto di utilizzo degli embrioni per la ricerca scientifica, mentre single e coppie dello stesso sesso sono ancora esclusi dalla possibilità di ricorrere alla fecondazione assistita.

Un percorso a ostacoli

Difficoltà ad accedere ai percorsi, tempi di attesa che si prolungano, pochi centri specializzati, strutture che non riescono a garantire tutte le prestazioni, medici del servizio sanitario nazionale che invitano a rivolgersi al privato (dove il più delle volte lavorano loro stessi), mancanza di gameti da donatori per la fecondazione eterologa e differenze regionali che impediscono di ottenere rimborsi se ci si reca fuori regione per accedere a un servizio non garantito.

A quasi venti anni di distanza dall’approvazione della legge che ha introdotto la PMA nel nostro Paese, le criticità sono sempre tante per chi cerca di avere un figlio avvalendosi della fecondazione assistita negli ospedali pubblici o nei centri convenzionati. Criticità che si risolvono se qualcuno può permettersi di rivolgersi a una delle tante cliniche private e che colpiscono solo chi non può o non vuole farlo, preferendo affidarsi al Sistema Sanitario Nazionale.

LEA: 18 anni di attesa per un decreto discriminatorio

Ci sono voluti 13 anni perché le tecniche di fecondazione assistita fossero inserite nei LEA (Livelli essenziali di assistenza), ovvero quelle prestazioni che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di un ticket.

Dal 2017 a oggi, però, non è stato emanato il decreto che fissa le tariffe per queste tecniche, da cui oltretutto rimangono ancora escluse alcune prestazioni.

In poche parole, questo significa che i LEA, di fatto, non sono ancora stati aggiornati e che le prestazioni di PMA a carico del SSN continuano non solo a non essere applicabili, ma che quando lo saranno non saranno in grado di rispondere ai bisogni effettivi delle persone che ne fanno richiesta.

Non solo: la prima bozza di decreto che avrebbe dovuto regolare questi aspetti rischiava anche di creare grandi discriminazioni.

Non solo era stato proposto un rimborso forfettario – di circa 1.360 euro – senza distinguere tra tecniche diverse che hanno costi diversi, ma mancavano indicazioni sulle coperture economiche per ogni fase del procedimento di PMA e molte tecniche fondamentali erano rimaste fuori.

Lacune che avrebbero come effetto lo spostamento delle prestazioni verso il regime privato e la corsa, per chi non se lo fosse potuto permettere, al “turismo procreativo” verso altri Paesi Ue.

Già nel 2020 l’Associazione Luca Coscioni aveva scritto al ministro della Salute, diffidandolo dall’approvazione del decreto e illustrando le modifiche necessarie per eliminare le criticità: integrare il nomenclatore tariffario con le indagini preimpianto – un esame che può evitare il rischio di impiantare embrioni che presentano anomalie genetiche o cromosomiche – introduzione dei rimborsi per i donatori di gameti al pari di tutti i Paesi Ue e tariffe congrue per ogni singola prestazione. Una diffida che aveva avuto effetto: dopo un incontro con la segreteria tecnica del Ministero della Salute era arrivato l’impegno a modificare la parte relativa alle tariffe e a integrare le prestazioni mancanti, e in maggio era stata diffusa una nuova versione.

La caduta del governo Draghi, però, ha fatto saltare il tavolo. Ancora una volta, il Decreto Tariffe rischia di rimanere al palo, con buona pace chi desidera avere un figlio ma non ci riesce e che aspetta che lo Stato riesca a garantire pienamente un diritto fissato dalla legge ormai quasi venti anni fa.

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