Diritti

Iran: aumentano le esecuzioni capitali (ma anche le proteste internazionali)

Solo a gennaio ci sono state almeno 74 condanne a morte nelle carceri del Paese: il 46% delle vittime era di etnia kurda. Per questo, in Italia, Europa, Canada e Usa è stata organizzata una protesta globale per chiedere la fine delle torture
Credit: David Canales/SOPA Images via ZUMA Press Wire
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22 febbraio 2024 Aggiornato alle 08:00

“Per le donne, la vita, la libertà”. Così canta Shervin Hajipour in Baraye, canzone divenuta simbolo della rivoluzione iraniana. Un sogno di libertà che in Iran sembra però molto lontano dal potersi realizzare, anzi: da gennaio 2024 in Iran i dissidenti e gli oppositori vivono in un clima di terrore a causa dell’aumento delle esecuzioni capitali.

In merito, l’organizzazione Hengaw informa che sono almeno 74 le condanne a morte eseguite nelle carceri iraniane nel primo mese dell’anno. Questa cifra allarmante comprende 7 esecuzioni di prigionieri politici e religiosi, di cui un significativo 46% legato a individui kurdi. A fare scalpore (anche in Occidente) è stata certamente l’esecuzione del giovane Mohammad Ghobadlou, detenuto a cui era stato diagnosticato un disturbo bipolare ma, nonostante ciò, è stato giustiziato martedì 23 gennaio nella prigione di Qazalhessar a Karaj.

Nello stesso giorno (e nello stesso carcere) è stato anche impiccato il prigioniero politico kurdo-sunnita Farhad Salimi, mentre nei giorni successivi altri prigionieri politici sono stati giustiziati, tra cui 4 cittadini kurdi; inoltre, sono nel braccio della morte anche 4 cittadini beluci.

Per questo motivo il 3 febbraio a Mestre (Venezia), come anche a Firenze e in altre città d’Europa, del Canada e degli Stati Uniti, si è svolta una protesta contro il regime teocratico iraniano per chiedere lo stop delle esecuzioni capitali, delle torture, e la liberazione di tutti i detenuti politici e religiosi.

Durante l’evento di Mestre, organizzato e promosso dall’Associazione Democratica degli Iraniani - Venezia, il portavoce dell’associazione, Jalal Jaraji, tra i primi rifugiati iraniani politici in Italia (venne ricevuto dal Presidente Pertini nel 1979 dopo essere fuggito dal regime dello Shah), ha denunciato che: «In Iran chi protesta contro il velo e per la libertà è costretto a subire torture, punizioni corporali medievali, come frustate, e gli sono estorte confessioni sotto tortura; le esecuzioni, dunque, sono usate come arma per soffocare la voce di coloro che chiedono giustizia e libertà».

In difesa dei diritti dei detenuti, alla manifestazione era anche presente l’associazione dei Giuristi democratici, presenza, la loro, quanto più essenziale all’interno di un contesto (quello del regime iraniano) che non permette ai detenuti di avere l’assistenza di un legale e di essere quindi giudicati attraverso processi equi e giusti.

«Come giuristi democratici aderiamo, oltre che a questo evento, anche all’iniziativa “per non dimenticare l’IRAN”. Ciò che ci ha convinto, come Giuristi democratici, a prendere parte a questa iniziativa è stato, solo e unicamente, il fatto che in Iran, uno Stato così importante dal punto di vista geopolitico, si perpetuino da oltre ormai 50 anni sotto la direzione di un regime teocratico (a cominciare della rivoluzione khomeinista che pur aveva avuto il merito di detronare lo shah Reza Pahlavi) le peggiori violazioni dei diritti umani dell’intero Pianeta».

Più precisamente: «la segregazione del 50% della popolazione femminile; l’impiccagione di chi, uomo o donna, si opponga al sistema; l’incarcerazione degli avvocati di libero foro; la carcerazione per debiti; la previsione nel sistema penale dei cosiddetti “reati contro Dio”» hanno spiegato a La Svolta i Giuristi democratici.

È necessario precisare che la maggior parte dei detenuti politici e dei dissidenti vengono condannati a morte per moharebeh (inimicizia contro Dio) ma anche per efsad-fil-arz (corruzione sulla Terra), quest’ultima un’imputazione usata spesso dai giudici per giustificare una condanna a morte altrimenti difficile da poter approvare.

Oltre a una giustizia “farsa”, a preoccupare la comunità iraniana è anche il ruolo delle democrazie occidentali; a parlarne a La Svolta è Jalal Jaraji: «Con questa protesta chiediamo sostegno e attenzione alla comunità italiana ed europea. L’anno scorso in tanti hanno sostenuto il movimento “Donna - Vita - Libertà”, ma purtroppo alle parole di vicinanza non è seguita una politica estera coerente, si chiedeva di mettere al bando i pasdaran ma siamo al punto di partenza, e a parte alcune sanzioni emesse dall’Unione europea, nella sostanza per il popolo iraniano non è cambiato molto. Per questo chiediamo all’Europa e agli Stati Occidentali democratici di interrompere qualsiasi rapporto economico con la Repubblica islamica dell’Iran, perché soltanto così si può dare un segnale chiaro che il popolo iraniano non è solo nella sua battaglia».

Alla manifestazione era presente anche Laleh (nome di fantasia), giovane iraniana che da anni risiede nel nord Italia e che ha preferito rimanere anonima perché in Iran vive ancora la sua famiglia e sa che quello che dice potrebbe essere usato contro i suoi parenti. Come molti altri partecipanti sorreggeva un cartello con scritto “Stop Executions”, mentre a terra erano stesi lunghi striscioni con le foto e i nomi dei moltissimi innocenti uccisi dalla Repubblica islamica dell’Iran.

Laleh ha raccontato a La Svolta che «Le notizie che giungono dall’Iran sono sempre più tragiche e non vediamo una presa di posizione chiara e netta da parte dei Governi occidentali ed europei - aggiungendo che - Il regime sta usando la pena di morte come punizione e strategia di paura; attraverso l’aumento delle esecuzioni vuole infatti terrorizzare i cittadini e dissuaderli dal partecipare alle manifestazioni di protesta. La Repubblica islamica dell’Iran sta uccidendo persone innocenti senza motivo, e questo avviene soprattutto per un gioco forza per far vedere che è lei che detiene il potere. Da non dimenticare poi sono le esecuzioni e le incarcerazioni riservate alle minoranze, in special modo verso i kurdi e beluci di cui non si parla quasi mai».

A parlare di repressione verso le minoranze è anche Ashti (nome di fantasia), ragazza kurda del Rojhelat (il Kurdistan iraniano). Ashti non è passata inosservata: tra i capelli ha una decorazione che ricorda i colori della bandiera kurda: «È da due anni che non torno in Iran - ha spiegato a La Svolta - nel frattempo sono morti due miei zii, mio cugino e mio fratello ha avuto un brutto incidente, ma ho il terrore a tornare in Iran perché il regime è ancora più violento con noi kurdi; i kurdi che entrano in carcere difficilmente escono da lì vivi. Il Governo iraniano si è persino rifiutato di restituire i cadaveri dei cittadini giustiziati alle famiglie, una condotta, questa, che l’Iran applica a chi è kurdo da più di 60 anni».

Le parole di Ashti trovano conferma nei dati diffusi dal report di settembre di Minority Rights, e da quello recentissimo di Hengaw, in cui si denunciano molte incarcerazioni per chi appartiene alle cosiddette minoranze (kurdi, beluci ecc.).

Ashti è apparsa molto grintosa e si è rammaricata che alla manifestazione siano stati assenti alcuni studenti iraniani che lei conosce: «L’assenza di giovani in eventi come questo è proprio ciò che vuole il regime. Tramite la paura e le minacce il regime cerca di silenziarci, e nel nostro silenzio vince; per questo credo fortemente che non bisogna abbassare la voce, ma continuare a gridare i nostri diritti anche per coloro che non sono venuti oggi». La forza di Ashti è notevolmente visibile: ha intonato lo slogan “Donna – Vita – Libertà” in kurdo (“Jin – Jiyan – Azadi”).

Insieme a lei era presente un’altra donna kurda, l’attivista e fondatrice di Udik Gulala Salih. Gulala non è una kurda dell’Iran ma del Bashur, il Kurdistan iracheno, e a La Svolta ha raccontato il motivo per cui ha deciso di partecipare a questa manifestazione: «Come donna kurda che ha vissuto in un regime, quello di Saddam Hussein, mi sento di esprimere vicinanza al popolo iraniano. Quando sento notizie inerenti le esecuzioni capitali e le violenze perpetuate contro cittadini innocenti provo rabbia e tristezza perché mi fanno ricordare il periodo buio che vivetti da piccola a causa del regime iracheno. All’epoca i dissidenti venivano puniti con la pena di morte, e purtroppo anche alcuni miei famigliari furono uccisi, per questo mi sembra impossibile che nel 2024 siamo ancora costretti ad assistere a una mattanza del genere senza che i leader dei Paesi democratici intervengano in maniera efficace».

Gulala riserva poi un pensiero finale: «Bisognerebbe mettere da parte gli interessi economici, penso al petrolio, e sostituire la guerra con la pace, far vincere la giustizia». Al termine della manifestazione, rimane comunque la speranza che un giorno possa essere fatta giustizia, e che il popolo iraniano possa essere finalmente libero, così come Hajipour canta in Baraye.

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