Economia

Quali sono le cause delle grandi dimissioni?

L’indagine Cisl Dentro l’epoca della Great resignation conferma una tendenza al rialzo delle dimissioni volontarie avvenute tra il 2021 e il 2022, che segna oltre 2,2 milioni di abbandoni in più
Credit:

Proxyclick Visitor Management System 

Tempo di lettura 5 min lettura
28 novembre 2023 Aggiornato alle 09:00

Con l’arrivo della pandemia da Covid-19, il mondo del lavoro ha subito cambiamenti epocali.

Durante i periodi di contenimento più stringenti, coloro che potevano continuare a lavorare lo facevano da casa, sperimentando una modalità inedita e apprezzabile sotto molti punti di vista.

Ma c’è anche chi, trovandosi di fronte a cambiamenti rilevanti nel proprio modo di lavorare, ha coltivato una riflessione più estesa, che in parecchi casi si è trasformata in concretezza: dimettersi e cercare un impiego molto più adatto alle proprie esigenze personali.

D’altronde, il fenomeno chiamato Great resignation (letteralmente, Grandi dimissioni) ha già coinvolto tutte le principali nazioni del mondo.

Negli Stati uniti a esempio 4,6 milioni di lavoratori hanno deciso di lasciare il proprio impiego nel 2021 e altrettanti nel 2022. Stando ai dati di Eurostat, anche in Europa l’11% di coloro che si trovano attualmente al di fuori del mondo del lavoro ha deciso volontariamente di lasciarlo nel terzo trimestre del 2022.

In Francia, per esempio, si è passati da 354.000 dimissioni a inizio 2021 a 523.000 a inizio 2022, analogamente a quanto successo in Spagna.

In uno scenario simile, l’Italia - stando ai dati forniti dal Ministero del Lavoro - non rimane di certo a guardare con 1,9 milioni di persone dimesse nel 2021, pari al 18,2% di tutte le 10,6 milioni cessazioni dei contratti di lavoro.

Il dato risulta confermato dall’indagine condotta dalla Cisl Lombardia realizzata da BiblioLavoro sulla base dei dati dell’Ufficio Vertenze delle diverse sedi Cisl provinciali, che ha registrato nella sola regione 566.000 licenziamenti volontari nel 2022, in aumento del 35% rispetto al dato dell’anno precedente (420.000).

A livello generale emerge la presenza di oltre 2,2 milioni dimissioni nel 2022, «con un aumento di oltre il 35% rispetto al 2019, ben 474.000 dimissioni in più», fa notare Enzo Mesagna, componente della Segreteria del sindacato.

L’elemento forse più significativo evidenziato dalla ricerca risiede nelle cause sottostanti la decisione di abbandonare il proprio lavoro, e che hanno consolidato il fenomeno delle grandi dimissioni.

In base a un questionario compilato da circa 2.000 dimissionari, la motivazione principale (votata al 36%) risulta l’eccessivo stress da lavoro correlato, con cui si intende quello squilibrio che il lavoratore avverte nel caso in cui le richieste nell’ambito lavorativo superino le capacità dell’individuo stesso.

Tale elemento si associa a un clima aziendale tossico, votato al 34,9% fra le principali cause di abbandono del posto di lavoro, caratterizzato da negatività generalizzata, scarsa collaborazione fra colleghi, mancanza di rispetto e stimoli da parte delle figure apicali.

Il carico da lavoro e la negatività circostante assumono dimensioni così smisurate da mettere il lavoratore in un potenziale stato di burnout, cioè un esaurimento fisico, emotivo e mentale che si manifesta in conseguenza di un prolungato e cronico stress lavorativo.

Per evitarlo, sempre più persone scelgono di liberare le proprie scrivanie, soprattutto se l’insoddisfazione deriva dal trattamento retributivo ricevuto.

Il 29,5% dei dimissionari, infatti, è mosso dalla ricerca di un miglioramento economico, nella speranza di trovare un impiego che possa garantire un bilanciamento migliore tra gli interessi personali e i doveri del lavoro, come sottolinea il 26,2% delle risposte.

Dall’enorme portata di queste quattro motivazioni è facilmente comprensibile anche il senso di fretta che nasce sulle spalle di chi si dimette, visto che a fronte di un 64,5% di persone che - quando hanno lasciato il posto - avevano già la prospettiva di un nuovo impiego, il 35,5% non ne aveva alcuna. Un salto nel vuoto, ma dettato dall’esigenza di liberarsi da una condizione di insoddisfazione molto più forte e opprimente.

Chi ha scelto di licenziarsi ha optato per un lavoro diverso da quello che lasciava. Per lo meno in Lombardia, dove il 48% dei dimissionari dal commercio si è spostato verso l’industria metalmeccanica, i servizi alle imprese o l’industria alimentare, così come il 43,4% di chi lasciava la ristorazione ha virato verso industria metalmeccanica, il commercio o attività sportive e artistiche.

In ogni caso, il 75,6% lascia un lavoro a tempo indeterminato, ma solo il 57,3% ritorna a questo tipo di contratto nel nuovo lavoro trovato.

Un peggioramento sotto il punto di vista della stabilità lavorativa, intesa come garanzia dal rischio di licenziamento ingiustificato, ferie e stipendio, ma un significativo guadagno in termini di miglioramento nell’autonomia (52,7%), nel riconoscimento delle proprie competenze (63,5%), nel work-life balance (58,5%), nel trattamento economico (61,3%), e nelle prospettive di carriera (47,8%).

Dunque, miglioramenti sotto tutti quei punti di vista racchiusi nelle 4 principali cause di dimissioni, che porta il 93% degli intervistati a non pentirsi della decisione presa.

Lasciare un posto di lavoro ritenuto insoddisfacente è un diritto intoccabile di ogni lavoratore, strettamente connesso alle proprie esigenze e competenze professionali.

Tuttavia, come sottolinea anche il report, sarebbe necessario riflettere maggiormente - soprattutto a livello aziendale - sulle origini della tossicità di alcuni luoghi di lavoro. Perché chi lascia una scrivania sta liberando uno spazio per qualcuno che entrerà dopo di lui, che vivrà potenzialmente tutti i problemi di quel posto e che forse non riuscirà ad avere lo stesso coraggio di abbandonarlo in cerca di un’occupazione migliore.

Leggi anche
Lavoro
di Alexandra Suraj 4 min lettura
Lavoro
di Antonio Zoccano 3 min lettura