Diritti

Great resignation: nel 76% sono millennials

È boom di dimissioni volontarie dalle aziende: a sottolinearlo, i dati Randstad. Tra le cause, insoddisfazione e mancanza di interesse negli incarichi. Ma qualcuno prova a correre ai ripari
Credit: Nadine shaaban/unsplash
Tempo di lettura 4 min lettura
3 ottobre 2022 Aggiornato alle 18:00

“Vedrai, quando inizierai a lavorare, quanto è difficile il mondo del lavoro”. Alzi la mano chi almeno una volta ha sentito pronunciare queste parole.

Perché, diciamocela tutta, finché non si entra nel mondo del lavoro e lo si guarda da lontano solo attraverso gli occhi da ragazzi, sembra tutto così bello. Un po’ come la vita nei film, dove chi lavora entra in ufficio con il caffè, ride e scherza con i colleghi di turno e in un batter d’occhio si accorge di aver terminato la sua giornata lavorativa.

Purtroppo tutto questo, appunto, esiste solo nei film. Quella del lavoratore è una vita caratterizzata dalla frenesia, dagli orari, i conti, le carte e mille responsabilità, che nasconde profondi lati negativi, difficili da notare da fuori.

È un mondo che, spesso, fa scontrare con realtà dure, con delusioni, amarezze e un po’ di senso di smarrimento. E ancor più spesso finisce col lasciare uno strano senso di vuoto e insoddisfazione personale. Questo oggi si sta traducendo in un fenomeno definito Great Resignation: dimissioni di massa di lavoratori causate da burnout, nuova ricerca di posti di lavoro che preservino il benessere, desiderio di difendere il work-life balance (un equilibrio tra lavoro e vita privata).

Tra chi ha un contratto a tempo indeterminato, nei primi 6 mesi di quest’anno ci sono state 624.047 dimissioni volontarie. Il boom è avvenuto, stando a una ricerca condotta da Randstad, tra gli under 40 mentre tra i baby boomers sono solo il 2%.

La ricerca (Hr trends & salary survey), nata e sviluppata in collaborazione con l’alta scuola di psicologia Agostino Gemelli dell’Università Cattolica, ha messo a confronto i pareri e i pensieri di HR Manager e candidati lavoratori sulla situazione del mondo del lavoro e sul fenomeno delle grandi dimissioni. I primi sono stati rappresentati da un campione di 215 soggetti, i secondi da un campione di 963.

Stando a quanto dichiarato dal campione di manager, nel 44% delle aziende le dimissioni sono aumentate negli ultimi 12-18 mesi e hanno riguardato soprattutto i millennials, ossia chi oggi ha tra 40 e 25 anni: nel 76% dei casi, secondo quanto dicono le aziende, sono stati loro a dimettersi; nel 28% la generazione X, nel 27% la generazione Z.

A rappresentare una percentuale bassissima di dimissioni dal posto di lavoro sono i baby boomers (appena il 2%). Uno spicchio piccolissimo giustificato da ragioni culturali, ma soprattutto dal fatto che coloro che ancora lavorano sono per la gran parte alle soglie della pensione e quindi prossimi a lasciare il posto di lavoro.

Secondo quanto emerso dalla ricerca, poi, nella maggior parte dei casi le dimissioni volontarie sono state causate da insoddisfazione per gli incarichi (47%), da mancanza di interesse negli incarichi stessi (34%) e da mancanza di obiettivi chiari e condivisi (30%). Tutto questo, ovviamente, ha avuto ripercussioni su più fronti sui lavoratori restanti: si sono trovati, infatti, davanti a sovraccarico di lavoro, desiderio di emulazione, perdita di punti di riferimento e demotivazione.

Per correre ai ripari davanti a una realtà lavorativa che sembra sgretolarsi su se stessa, il 70% delle aziende che ha sperimentato un aumento delle dimissioni volontarie ha messo in atto azioni per trattenere le risorse: tra queste percorsi di formazione (30%), momenti di ascolto e condivisione delle problematiche (29%), maggiore attenzione alle relazioni interne (27%), passaggi di ruolo/cambi di mansione (25%).

Più o meno in linea con le richieste da parte dei lavoratori, emerse dalle risposte della stessa ricerca: questi, però, vedono come perfetta soluzione alle dimissioni di massa l’adozione di percorsi di formazione, ma chiedono anche un’adeguata retribuzione, concrete opportunità di crescita e di carriera e soprattutto un buon livello generale di benessere e serenità all’interno dell’azienda che comprenda un giusto equilibrio tra vita lavorativa e vita privata. Un requisito che oggi riesce a garantire solo 1 manager su 3.

La ricerca di Randstad evidenzia «come il tema del benessere, sia fisico che mentale, sia molto sentito dalle persone - riflette Maria Pia Sgualdino, head of Randstad Professionals - In particolare per le nuove generazioni, il lavoro non è più solo legato alla necessità funzionale, ma deve generare benessere emotivo per inserirsi nel progetto di vita. Le persone oggi non sono più disposte a sopportare ambienti di lavoro poco “sani”, dal punto di vista fisico e emotivo, chiedono equilibrio tra vita e lavoro».

«Ecco perché per le aziende è necessario diventare “umanocentriche” - conclude Sgualdino - e prendere in considerazione i diversi bisogni delle persone, considerando come priorità anche gli aspetti più “soft”, di benessere psico-fisico»

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